La Bielorussia di Lukashenko, alleato riluttante alle prese con la «mela avvelenata» di Putin

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di Marco Imarisio

Con l’arrivo dei missili Iskander, la Bielorussia si appresta a diventare una specie di base militare della Russia. E Aleksandr Lukashenko non può più far finta di barcamenarsi tra Russia e Europa

L’alleato riluttante è un dittatore a sovranità limitata. Lo era già da prima, in pratica da sempre. Ma ancora di più dall’agosto del 2020, quando l’esito delle elezioni presidenziali, che pure vennero definite «una barzelletta» dagli osservatori internazionali, gli consegnò il solito dubbio plebiscito unito al risultato inatteso di Svetlana Tikhanouskaya, moglie dell’attivista Sergej Tikhanosky , che correva in vece del marito, incarcerato poco prima del voto.

All’improvviso Aleksandr Lukashenko, che ama definirsi il «babbo» della sua Bielorussia, scoprì di essere un padre ben poco amato. Al punto da rendere quasi ridicolo l’ottanta per cento dei suffragi che si era autoassegnato. E così, davanti alle proteste di piazza, alle rivolte che aumentavano ogni giorno, dovette rimangiarsi l’orgoglio extra large come la sua stazza. Alla stregua di un qualsiasi governatore russo, dovette chiedere aiuto a Vladimir Putin che con gesto magnanimo inviò qualche divisione dell’Armata rossa a reprimere ogni protesta.

Minsk tornò ad essere una città ordinata, Lukashenko diede il via a una caccia al dissidente che dura ancora oggi. Al tempo stesso, non che ci fosse ulteriore bisogno di prove, evaporò ogni pretesa di quella indipendenza dal Cremlino che il presidente della Bielorussia invece sventola con un misto di narcisismo e spudoratezza durante ogni intervista con i giornalisti stranieri. Proprio per via di questa soggezione impossibile da mascherare, la notizia che la Russia fornirà all’alleato di minoranza i famosi missili a corto raggio Iskander, capaci di trasportare anche testate atomiche, non è certamente una sorpresa, e neppure una concessione. Putin decide quel che è meglio per sé. Gli altri obbediscono. E in questo caso devono accettare quello che sembra un regalo, ma in realtà è una mela avvelenata. Perché dopo 28 anni al potere trascorsi fingendo di barcamenarsi tra Russia ed Europa, Lukashenko diventa un re nudo, obbligato suo malgrado a schierarsi in modo definitivo.

All’inizio di maggio aveva rilasciato una intervista alla Associated press durante la quale aveva espresso velate critiche alla strategia del Cremlino. «La guerra si sta trascinando» aveva detto. Aveva usato quella parola, che se pronunciata a Mosca vale dai tre ai quindici anni di carcere. Con un media americano, poi. Il giorno dopo, gli aveva risposto il portavoce di Putin con una alzata di spalle. «A noi non risulta». Tre parole, per liquidare l’uomo che in quella stessa occasione si era definito «l’alleato più fedele» di Putin. Ma funziona così, con gli Stati cuscinetto che appartengono al cosiddetto Russkij Mir, lo spazio vitale russo. Il Paese più grande guarda agli altri con la supponenza che si riserva ai fratelli più piccoli e più impacciati.

Lukashenko è un personaggio bizzarro e fumantino. Quanto alla fondatezza delle sue parole, valga la cura per il Covid-19 che aveva consigliato ai suoi connazionali. Una terapia a base di hockey su ghiaccio, mirtilli, vodka, sauna, e passa tutto. Ogni volta che ha provato a rialzare la testa con «l’amico di sempre» Vladimir, ha subìto un’umiliazione pubblica. Accadde nel 2021, quando dicendosi stanco delle sanzioni dell’Europa disse che avrebbe chiuso i rubinetti del gasdotto Yamal-Eu che attraversa il suo territorio. Non solo Putin gli fece notare che quei tubi erano di Gazprom e non suoi. Ma gli ricordò anche come la Bielorussia e il suo regime rimangano a galla grazie ai prezzi agevolati di gas e petrolio gentilmente concessi dal Cremlino.

L’aspetto paradossale di questa storia è che proprio la conclamata debolezza interna di Lukashenko gli ha permesso di non mandare in Ucraina il proprio esercito. «Si aprirebbe subito un altro fronte» concorda pressoché ogni analista internazionale, con la Russia costretta a intervenire nuovamente. Ma per il resto, L’Operazione militare speciale ha fatto finire anche la strategia di Lukashenko che lo ha tenuto a galla per tanti anni, usando i legami con Mosca contro l’Europa e quelli con l’Europa contro Mosca. Adesso la Bielorussia si appresta a diventare una specie di base militare della Russia, dopo averne ospitato le manovre congiunte servite per attaccare Kiev da terra alla fine dello scorso febbraio. Tanto più che Lukashenko è ben consapevole del fatto che l’idea della fusione tra i due Paesi esiste dal 1991. Persino Boris Eltsin la prese in considerazione. Figuriamoci cosa farebbe Putin, se «l’alleato più fedele», per quanto riluttante, dovesse farlo arrabbiare sul serio.

26 giugno 2022 (modifica il 26 giugno 2022 | 21:46)

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