Un anno se ne va, un altro si apre

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fuochi artificio

È il calendario a ricordarcelo, ma questa divisione in realtà è solo nostra, mentre la storia ed il nostro vissuto corrono senza soluzioni di continuità. La storia cioè continua, e non bada ai nostri criteri. Come direbbe Edgar Morin, “ciò che non rigenera, degenera”. L’abbiamo visto tutti, anche in questi ultimi anni, ciò che genera e ciò che degenera. Corsi e ricorsi, si suggeriva il grande Vico. E così, dopo l’apertura globale, oggi ci ritroviamo invece un mondo che si chiude in se stesso, a cerchi concentrici, dominato, mi verrebbe da dire, dalla paura come primo collant.

Oggi, infatti, ci sentiamo tutti un po’ prigionieri della paura, e perciò un po’ pessimisti sul futuro. Troppe questioni aperte, troppi problemi senza soluzione: da quelli geopolitici e sociali, interni ed esterni, a quelli naturali, a quelli valoriali. E non contano più gli attori, politici o meno, perché è la sostanza a non cambiare. Comunque, col nuovo anno, dopo il Natale, proviamo comunque ad augurarci positività. Un auspicio di rigenerazione. Sapendo, comunque, col vecchio Seneca, che “non si può per sempre portare la maschera”. E di maschere ne abbiamo scoperte nel corso del 2022. Ai vari livelli. Resta la domanda: se ci possiamo ancora permettere, con altre nuove maschere, di nasconderci dietro a nuove illusioni, quelle che fanno pensare che, tutto sommato, le cose vanno. E che andranno sempre meglio. Mentre sappiamo che il meglio o il peggio non cadono dal cielo come una manna, ma dipendono anzitutto da noi.

Chi, un anno fa, al di là di oroscopi o maghi, avrebbe mai immaginato quello che è successo nell’anno che se ne sta andando? Chi avrebbe il coraggio di mettere fianco a fianco le speranze e le attese di allora con quello che è effettivamente successo? Lo sappiamo, il futuro non si può prevedere, ma si può accompagnare. Vivere la vita richiede consapevolezza, disponibilità, apertura, attenzione. Capacità non scontate, mai scontate. Ma c’è un criterio etico che dovrebbe darci una mano nei nostri giudizi di valore e negli nostri auguri per il nuovo anno: è il filtro esistenziale della sofferenza, per capire se c’è, tra di noi, ai vari livelli, un minimo comun denominatore di umanità. La comunanza cioè del dolore come messaggio unificante oltre le differenze. E il senso di una vita, ci verrebbe da chiederci, dove sta, in questa drammaticità di vita? Difficile nominare il Dio dei giusti, ancora oggi invocato dal Kirill di turno, per giustificare la violenza della guerra e del dolore innocente. Oggi Dio, invece, parla attraverso il silenzio, ed il non-detto. Chiedendo invece coscienza e autocoscienza.

Difficile che questi linguaggi entrino nel circuito del chiacchiericcio odierno. Non basta cioè inventarsi, con le nuove tecnologie, i metaverso, non basta nascondersi dietro agli strumenti che vorremmo ci garantissero la continua connessione, anzitutto con noi stessi. Per capire chi siamo. Non basta. Con l’augurio di “buon anno” vediamo il tempo che ci avvolge, ma senza sapere un perché. Fra poco sono tre anni dalla pandemia, ma è anche un anno dall’inizio, il 24 febbraio, dell’invasione russa dell’Ucraina. Chi troviamo a combattere? Sono sempre i figli della povera gente, divisi in eserciti e gruppi di mercenari, ma sempre figli della povera gente. Da una parte e dall’altra. E questi figli si assomigliano tutti, di qua e di là. Sono persone già crocifisse al destino, dal destino. Al dunque, con gli auguri per il nuovo anno, ci viene a volte spontaneo chiederci, sottovoce: ma, in fondo, chi siamo, dove stiamo andando, quale è la comunità alla quale ci sentiamo parte, e per quale ragione?È il solo sentimento della paura a guidarci, o ci sono anche altri sentimenti?

L’amicizia, ad esempio: se cerchiami di essere amici, oltre le differenze, possiamo cambiare le cose. E gli amici, come è stato detto, si appartengono, e possono fare tante cose e vincere le contraddizioni. Cioè, non siamo solo paura e sospetto reciproco. E così, mentre noi ci lamentiamo del costo dell’energia, facciamo fatica a capire cosa e come stanno soffrendo in queste ore gli ucraini, ma anche i siriani, i curdi, nel medio oriente, i popoli del sud-Sahel, gli afgani, le donne iraniane. Ma anche tanti nostri concittadini, visibili e invisibili, che faticano ad arrotondare per arrivare a fine mese. L’ingiustizia è la prima forma di violenza, in ogni latitudine del nostro mondo globale. E la paura ne è il carburante. La pace ci potrà essere solo se riusciremo, nel grande come nel piccolo gesto, a tradurre le scelte in giustizia. Non solo per pochi. Ma in tutto ci vorrebbe più pietà, più ragione, più consapevolezza, ci vorrebbero più pensieri lunghi. E non vincolati solo ai piccoli o grandi cabotaggi di interessi di parte. Illusione tutto questo?

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