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Serial killer di Aosta, Matteucci incontra il figlio 25 anni dopo: «Ho fatto cose bruttissime, perdonami»

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di Rossella Scalise

Christian era un bimbo quando scoprì di essere figlio di quello che per tutti era «il mostro», responsabile di quattro omicidi. Ora il padre è un uomo di 59 anni, malconcio, senza denti, smarrito nella malattia mentale. Il racconto del loro primo incontro

Il serial killer ormai ha scontato la sua pena, e da lontano sembra un anziano un po’ sperduto, come tanti altri che incontri per strada senza farci caso. Andrea Matteucci si avvicina a passo lento, il capo calvo e gli occhi scuri, persi nel vuoto di pensieri che non possiamo conoscere. «Volevo tornare qui, in Valle d’Aosta, speravo tanto di incontrare ancora una volta mio figlio Christian». Del bell’aspetto di un tempo non è rimasto quasi nulla, è faticoso persino per il figlio riuscire a riconoscerlo. Andrea Matteucci tiene stretto un marsupio nero: «Dentro ho il mio cellulare», dice con un sorriso senza denti, lo sguardo resta fisso per un attimo, come se si disconnettesse dalla realtà. Christian – da tempo ha cambiato cognome – lo osserva, la vista è annebbiata dalle lacrime, le mani tremano, mentre il papà lo abbraccia per la prima volta dopo 25 anni. È quasi impossibile non notare la somiglianza tra i due, nonostante la vita abbia segnato profondamente entrambi. «Sono qui e cerco di essere forte» racconta Christian. «Ogni giorno della mia vita, per qualche secondo, ho pensato a lui. Mi chiedevo come fosse diventato, ma soprattutto se per lui io ancora esistevo. In un certo modo, devo ammettere che mi è mancato».

L’ossessione

È il 3 febbraio 2022. Dall’ultimo incontro col padre è trascorso un tempo lunghissimo, in cui Christian è rimasto solo con sua madre ad affrontare il giudizio della gente. «Molti mi hanno additato come il figlio del mostro di Aosta, come se io c’entrassi qualcosa. Ho vissuto l’inferno. Ci siamo dovuti allontanare dal paese in cui vivevamo, la gente è stata feroce, come se ad uccidere quelle persone fossimo stati noi». Andrea guarda per la prima volta quel figlio di 34 anni diventato uomo senza di lui: «Scusami Christian, non sono stato un buon padre». Albana Dakovi, prostituta di origine albanese, sparisce nel nulla una notte del marzo 1995. In una lettera anonima, consegnata alla caserma dei carabinieri di Pont-Saint-Martin, un testimone scrive che la ragazza è salita su un Iveco Daily azzurro, di cui fornisce la targa. Il furgone appartiene a un incensurato, Andrea Matteucci, di mestiere scalpellino, definito da tutti come un uomo tranquillo, dal carattere introverso, sposato e padre di un bimbo. Il 26 giugno dello stesso anno, Matteucci viene arrestato e il giorno dopo ammette di aver ucciso Albana Dakovi, confessando anche altri tre omicidi. Tra le sue vittime ci sono Daniela Zago e Omoregbee Clara, anche loro prostitute.

La madre

Secondo le perizie psichiatriche dell’epoca, è questo il «fattore scatenante» della furia omicida del killer, che in quelle donne rivedeva sua madre, con cui aveva sempre avuto un rapporto conflittuale. «Lei mi diceva che aveva fatto un patto con Satanik, io le rispondevo che avevo fatto un patto con Dio e tutte le persone come lei le avrei estirpate come erbacce» racconta Matteucci ai periti della Procura. Nella sua mente malata, le sue vittime come la madre erano tutte persone «cattive e con lo stesso modo di pensare, che non avevano voglia di ascoltarmi. Le ho uccise perché le donne non devono fare l’amore per soldi». Ma l’assassino ha già ucciso anche in passato, quindici anni prima, nel 1980. La sua vittima si chiamava Domenico Raso, delitto rimasto fino a quel momento senza colpevole, trovato accoltellato e con le mani legate dietro la schiena sui gradoni dell’anfiteatro romano ad Aosta «punito» perché una notte aveva cercato di adescare Matteucci.

Il pregiudizio

Durante il processo l’imputato ribadisce la confessione, fornisce prove e dettagli, senza lasciare spazio a dubbi. Il 16 aprile del 1996 viene condannato a 28 anni di carcere, più 3 anni di custodia in una casa di cura psichiatrica. Nel 1996 Christian ha solo 9 anni. Quel papà gentile è ormai diventato per tutti il serial killer di Aosta, il suo volto si vede in prima pagina sui giornali e al telegiornale della sera. «Io ero un bambino» racconta «sono rimasto solo a combattere contro i miei incubi e ho dovuto costruire un muro per proteggermi. Sono scappato da quello che ho saputo di lui e da come la gente ne parlava. Il pregiudizio mi ha accompagnato per tutta la vita. Oggi però voglio chiudere questo capitolo della mia vita». Mentre Christian cresce, il percorso in carcere di Andrea Matteucci diventa sempre più problematico e le sue patologie psichiatriche peggiorano: «La vita in una cella è molto dura» spiega Marina Tumiati, direttrice sanitaria della Casa circondariale di Brissogne, dove Matteucci è stato per un periodo. «La detenzione può portare alla luce alcune problematiche in maniera più rapida, ma in ogni caso non può far insorgere delle psicosi croniche prima non esistenti».

L’attrazione per la morte

A questo proposito è Paolo De Pasquali, lo psichiatra autore con i colleghi Francesco Bruno e Anselmo Zanalda della consulenza tecnica psichiatrica su Matteucci nel 1995, a ribadire l’importanza del loro lavoro: «L’attenzione particolare a soggetti come il Matteucci, apparentemente normali, è fondamentale. La nostra perizia permise infatti di individuare una patologia psichiatrica, che negli anni successivi ha impedito al soggetto criminale di tornare in totale libertà anche dopo avere scontato interamente la pena». La maggior parte dei serial killer ha una condizione che viene chiamata necromania: «Una patologica attrazione per la morte, in tutte le sue forme. Solamente attraverso dei colloqui approfonditi Matteucci ammise di avere disseppellito i cadaveri e di averli profanati. Individuare disturbi della personalità misti e diagnosticare una capacità di intendere e di volere grandemente compromessa consentono alla giustizia di attenzionare questi individui, anche da un punto di vista psichiatrico».

Il complesso

In parole povere, questa diagnosi ha permesso al giudice di applicare al condannato, una volta scontata la sua pena, la misura di ingresso in una Rems, struttura psichiatrica dove trovano alloggio gli individui «pericolosi socialmente» che altrimenti sarebbero liberi. Andrea Matteucci esce di prigione nel 2017. È allora che Christian decide di cambiare cognome: «Da quel momento ho ricominciato a vivere, anche se non posso cancellare il nostro passato. Papà ha commesso dei reati imperdonabili, chiedo scusa anch’io per lui. Nessuno potrà riportare in vita quelle persone, purtroppo. Io però non ho colpe e oggi voglio capire come sta. Provare finalmente a conoscerlo. Il male non si cancella, ma voglio dare a lui e a me stesso un’opportunità». Il padre di Christian oggi ha 59 anni e vive in una comunità terapeutica. «Si è perfettamente integrato, non crea problemi e ha legato con altri ospiti. Il carcere lo ha profondamente cambiato. Le sue capacità cognitive sono regredite e ha manifestato una forma di schizofrenia, mai diagnosticata prima», racconta la psichiatra Anna Maria Beoni, direttrice del Dipartimento salute mentale di Aosta, che segue da vicino l’evoluzione del caso. «L’ho incontrato per la prima volta nel carcere valdostano. Appena è entrato nella stanza ho capito che avevo di fronte un paziente diverso da tutti gli altri. Il suo è un vissuto complesso, in cui il carnefice è a sua volta vittima».

Il fallimento di una vita

Nessuno vuole ridurre il peso delle sue responsabilità, nemmeno dopo tanti anni. All’epoca dei suoi delitti, il termine femminicidio nemmeno esisteva. Nelle sue lunghe confessioni, Matteucci ha ripercorso anche un’infanzia difficile, il rapporto contrastato con una madre assente, il peso delle condizioni economiche svantaggiate. «La mia vita è stata tutta un fallimento» dice oggi a mezza voce. «Ho commesso delle cose bruttissime». Poi si ferma, beve un sorso d’acqua e tossisce. «Sono tanto pentito di quello che ho fatto, ma prendo delle medicine per stare tranquillo». Ogni anno il Dipartimento di Salute Mentale regionale deve consegnare al giudice una relazione sulla sua pericolosità sociale, fintanto che essa sussiste. In sostanza, il percorso riabilitativo deve proseguire fino a quando gli psichiatri lo riterranno opportuno. «Nel suo caso possiamo parlare di psicopatia e di una totale assenza di empatia, che difficilmente potrà essere recuperata» conclude Beoni «La mancanza di un reale senso di colpa è tipico di questi soggetti ed è quello che permette a persone lucide e ben orientate di commettere reati in maniera ripetitiva. La cura farmacologica non è possibile, per cui è molto probabile che Andrea dovrà essere seguito per sempre dal nostro servizio. Con lui è stato portato avanti un lavoro enorme e siamo consapevoli di avere fatto tutto il possibile».

Il futuro

Insomma: secondo gli psichiatri oggi il serial killer, nonostante l’ammissione di colpevolezza e l’espressione di un pentimento, non ha una completa capacità di critica e di giudizio di fronte ai delitti che ha commesso. Anche se gli infermieri lo descrivono come una persona mite ed educata, sembra infatti sussistere un «deficit di rimorso». Matteucci ha voglia di parlare e di socializzare, ama passeggiare e andare a prendersi un caffè al bar, fa cose semplici e non ha mai dato problemi, è sempre stato rispettoso delle regole imposte. Ha iniziato a leggere la Bibbia e si rivolge a Dio: «Lui non mi risponde, ma mi dà conforto. Gli chiedo di fare stare bene il mio figliolo e chi mi sta vicino». Durante il loro primo incontro suo figlio Christian è molto prudente. Non vuole rischiare di turbare un equilibrio che si è costruito a fatica. Sa di non essere più di fronte a «papi Andrea», quell’uomo tranquillo che forse non è mai esistito davvero. Il loro tempo insieme è finito, ma Christian promette che si vedranno ancora. «Ciao papà. La prossima volta ti porterò dei fogli e dei pennarelli colorati. Ci rivediamo presto».

19 marzo 2022 (modifica il 19 marzo 2022 | 10:41)

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, 2022-03-19 09:31:00, Christian era un bimbo quando scoprì di essere figlio di quello che per tutti era «il mostro», responsabile di quattro omicidi. Ora il padre è un uomo di 59 anni, malconcio, senza denti, smarrito nella malattia mentale. Il racconto del loro primo incontro, Rossella Scalise

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