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Lo scrittore Viet Thanh Nguyen: «È scontro tra sistemi, come nel mio Vietnam. La guerra ci trasfigura»

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di Paolo Salom«I conflitti andrebbero evitati, ma ci manca l’immaginazione politica per trovare forme di confronto, oltre alla forza, con Cina e Russia» Da bambino, si è lasciato alle spalle un mondo in fiamme. Un Paese, il suo Paese — il Vietnam del Sud — sull’orlo del collasso: dopo un decennio di guerra civile, il Nord comunista stava ottenendo la sua vittoria. Per migliaia di «sudisti», la riunificazione dopo la lunga stagione del colonialismo, aveva tuttavia un sapore amaro. «La mia famiglia — dice Viet Thanh Nguyen, al Corriere, dal suo studio all’Università della California del Sud, a Los Angeles — pensava di non aver altra scelta se non fuggire. In realtà esisteva un’altra possibilità, rimanere. Ma in quel momento sembrava una follia». Viet, premio Pulitzer 2016 per il romanzo «Il simpatizzante» (Neri Pozza), autore di saggi e racconti sulla sorte dei rifugiati sudvietnamiti negli Stati Uniti — sua patria d’adozione — offre uno sguardo addolorato, oltre che disincantato, sul conflitto che sta dilaniando l’Ucraina, con punti di contatto (e differenze) capaci di riaprire antiche ferite. La storia si ripete? «In parte. Le somiglianze tra guerra del Vietnam e in Ucraina sono soprattutto nell’importanza che questi conflitti hanno avuto e hanno per il resto del mondo. Sono guerre combattute in un solo Paese ma con Potenze grandi e piccole che prendono le parti degli uni o degli altri, dunque si trasformano in guerre globali dove sistemi diversi si scontrano: capitalismo contro comunismo (Vietnam); democrazia contro autoritarismo (Ucraina)». E poi c’è il problema dei profughi: una crisi nella crisi… «Sì, con la differenza che in Vietnam la crisi dei rifugiati ha avuto inizio alla fine della guerra; in Ucraina sin dai primi momenti. Ma in entrambi i casi abbiamo assistito al coinvolgimento dei civili, con la perdita di tantissime vite umane. Ma insomma: il problema dei profughi dipende moltissimo dalla retorica di guerra. Era successo in Vietnam, e ora in Ucraina: in fin dei conti, chi scappa fa una scelta, chi resta pure. E tuttavia le conseguenze possono essere drammatiche. La mia famiglia decise di partire perché sentivano di non aver scampo. Ed è lo stesso ora per gli ucraini». Si aspettava di vedere di nuovo tanto sangue, tanti innocenti uccisi? «C’è poco da fare. Le guerre sono ammantate di retorica, di soldati buoni ed eroici da una parte e di nemici crudeli dall’altra. La verità è che quando gli esseri umani vanno in battaglia le loro anime si trasfigurano, diventa difficile contenerne la violenza. Oggi l’Occidente condanna giustamente questi episodi in Ucraina ma in altri tempi e in altri luoghi sono stati gli occidentali a commettere atrocità. Basta ripercorrere le guerre coloniali o pensare, tra i tanti episodi in Vietnam, al massacro di My Lai (tra i 300 e i 500 civili, uomini, donne e bambini, uccisi dai soldati americani il 16 marzo 1968,ndr )». Lei crede che esista una «guerra giusta»? «Credo che le guerre giuste siano davvero rare. La maggior parte dei conflitti sono combattuti per interessi diretti, materiali. Il resto è il travestimento che serve a chi muove guerra per ammantarla di giustificazioni accettabili. E comunque, le guerre diventano giuste soprattutto per chi vince, e ingiuste per chi perde. Nel caso dell’Ucraina, guardiamo alla retorica di Mosca che afferma di combattere per “difendersi e per tutelare i russi”. Difficile per noi accettarlo. È chiaro che gli ucraini si stanno difendendo. Eppure non so quanto di ciò che sta avvenendo dalla parte occidentale sia davvero scevro da retorica». È d’accordo sull’opportunità di fornire armi a Kiev? «Siamo di fronte a una guerra difensiva. Quindi teoricamente è giusto aiutare. Ma sulla “moralità” di fornire materiale bellico: lo sappiamo quanto costano questi apparati? E che profitti generano per i produttori di armi? Lo sappiamo che gli Stati Uniti sono il Paese con l’industria bellica più importante del mondo? È davvero frutto di buoni sentimenti? In ogni caso, sono decisioni fatte sul breve termine. Sul lungo termine nessuno ha idea di che cosa potrà significare. La verità è che noi dovremmo lavorare per evitare di trovarci di fronte a un conflitto che poi appare inevitabile: dunque prevenire azioni che portino a conseguenze drammatiche». Democrazie e totalitarismi: il dialogo è possibile? «È difficile tracciare una linea netta. Anche perché le nazioni occidentali, Stati Uniti in testa, hanno rapporti economici e politici con non pochi regimi totalitari. Dove finiscono gli affari e dove comincia la giustizia? Noi vendiamo armi per miliardi a regimi che poi le usano contro i loro stessi cittadini. Forse dovremmo cominciare a ragionare in termini differenti. La verità è che ci manca l’immaginazione politica per trovare altri sistemi, al di là dell’espressione di forza, per confrontarci con Paesi come Cina e Russia». In Italia si discute sulla moralità della guerra in sé. «Penso che siano molti gli esempi per i quali una persona sia pronta a morire: la patria, la famiglia, il villaggio. E questa è una cosa nobile. Anch’io sarei pronto a morire per i miei principi. Ma una cosa è essere pronti a morire, un’altra essere pronti a uccidere: in questo non c’è alcuna nobiltà». 8 aprile 2022 (modifica il 8 aprile 2022 | 21:46) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-04-08 19:47:00, «I conflitti andrebbero evitati, ma ci manca l’immaginazione politica per trovare forme di confronto, oltre alla forza, con Cina e Russia», Paolo Salom

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