De Mita, il democri(s)tiano che capì il ‘68

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il politico scomparso Mezzogiorno, 28 maggio 2022 – 07:49 di Marco Demarco De Mita in un’idea, in un’immagine, in una battuta? Questo esercizio di riduzione del massimo al minimo è quasi un obbligo. Soprattutto quando si ha voglia di trattenere per sé, per la propria memoria, l’essenza di una personalità complessa. Sebbene questo esercizio, nel caso specifico, sia praticamente impossibile, perché De Mita è stato il figlio del sarto, il tressette, il sindaco del piccolo paese, ma anche il premier, l’altra metà di Craxi, l’altro di Andreotti, il Moro dopo Moro, e tante altre cose ancora, tra cui il labirinto di ragionamenti in cui molti giornalisti, me compreso, si sono persi, alla fine ho risolto così. Ho cominciato a pensarlo non come un democristiano, ma come un democritiano. Proprio così. Senza la esse. Da Democrito. Un Democrito tutto mio, naturalmente, ad uso e consumo puramente classificatorio, e di sicuro non quello che Dante sbatté all’inferno, “colui che il mondo a caso pone”, per via del materialismo, dell’atomismo e della creazione negata. De Mita ha però a che vedere, e molto, con un altro cardine di quel pensiero: il mutamento. “Il cosmo è mutamento, la vita è un’opinione che si adegua”, diceva il filosofo greco. E Carlo Rovelli, il fisico, cita spesso questo frammento per spiegare come la ricerca scientifica procede nella comprensione del mondo. Analogo, in fondo, il procedere politico di De Mita: osservava, calcolava, quindi mutava atteggiamento e si spostava dai precedenti approdi pur di non peggiorare le cose con l’immobilismo. Da qui, anche, certi scarti improvvisi nelle alleanze e perfino nei rapporti amicali. Sono in molti a saperne qualcosa. Il nostro Stefano Caldoro, ad esempio, «tradito» in una notte per Vincenzo De Luca. O anche, ma in senso opposto, Ortensio Zecchino che dopo una celebre e dolorosa rottura se lo ritrovò, vicino e partecipe, insieme con Mattarella, a una manifestazione del suo Biogem ad Ariano Irpino. Prevedibile, dunque, l’obiezione che tira in ballo l’opportunismo o altre cose del genere ben note in ambito democristiano. Tuttavia, a fare la differenza è il contesto politico-culturale in cui De Mita si muoveva. Dal mutamento democriteo al movimento politico il passo è breve. De Mita è stato un teorico della politica come movimento. E molto si è dedicato al movimento politico per antonomasia, al sessantotto. Per giunta, mentre altri torcevano il naso. Ad esempio, Prodi. «Accadeva il ‘68, ma io stavo facendo altro…», ha confessato nel suo ultimo libro. All’uomo che proprio De Mita aveva scelto per modernizzare la struttura industriale del Paese non piacevano «gli slogan, la retorica, i voli pindarici e gli astrattismi». A De Mita, invece, tutta quell’immaginazione piaceva, eccome. Pensava, e lo raccontò a due filosofi non democristiani come Roberto Racinaro e Biagio de Giovanni, che solo prefigurando un mondo, lo puoi istituire. Il problema, dunque, non è l’astrattezza in sé, ma cosa immagini e come credi di dover procedere. In questo senso, disse, «il 68 può essere letto come un grande bisogno di libertà». In proposito, citava Moro che nella contestazione di allora coglieva due effetti, due elementi di novità: il protagonismo dei giovani e quello delle donne. Ma lo superava anche, perché oltre gli effetti vedeva le cause positive di quel sommovimento: il Concilio Vaticano II, la diffusione dell’istruzione, il passaggio dalla radio alla televisione. Il problema – ammise- si pose dopo, quando a quella domanda non fu trovata la risposta giusta. E si può anche pensare che fu tutta colpa della Dc. Ma attenzione. Al tempo, i comunisti vedevano nei movimenti l’anticipazione della storia. Ma la storia che loro portavano a modello era già sulla via della dissoluzione. «Un paradosso», rifletteva De Mita. Già allora non parlava da democristiano, da difensore d’ufficio del suo partito, bensì da democristiano, senza la esse; da teorico del mutamento, della politica come processo infinito, come continua sfida tra immaginazione e istituzione. Né più né meno che quello che ha detto Mattarella nel salutarlo per l’ultima volta: «Il suo impegno politico ha sempre avuto al centro l’idea della democrazia possibile. Quella da costruire e vivere nel progressivo farsi della storia… Nasceva da questa visione della democrazia come processo inesauribile l’attenzione per il rinnovamento e l’adeguamento delle nostre istituzioni». La newsletter del Corriere del MezzogiornoSe vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. 28 maggio 2022 | 07:49 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-05-28 05:50:00, il politico scomparso Mezzogiorno, 28 maggio 2022 – 07:49 di Marco Demarco De Mita in un’idea, in un’immagine, in una battuta? Questo esercizio di riduzione del massimo al minimo è quasi un obbligo. Soprattutto quando si ha voglia di trattenere per sé, per la propria memoria, l’essenza di una personalità complessa. Sebbene questo esercizio, nel caso specifico, sia praticamente impossibile, perché De Mita è stato il figlio del sarto, il tressette, il sindaco del piccolo paese, ma anche il premier, l’altra metà di Craxi, l’altro di Andreotti, il Moro dopo Moro, e tante altre cose ancora, tra cui il labirinto di ragionamenti in cui molti giornalisti, me compreso, si sono persi, alla fine ho risolto così. Ho cominciato a pensarlo non come un democristiano, ma come un democritiano. Proprio così. Senza la esse. Da Democrito. Un Democrito tutto mio, naturalmente, ad uso e consumo puramente classificatorio, e di sicuro non quello che Dante sbatté all’inferno, “colui che il mondo a caso pone”, per via del materialismo, dell’atomismo e della creazione negata. De Mita ha però a che vedere, e molto, con un altro cardine di quel pensiero: il mutamento. “Il cosmo è mutamento, la vita è un’opinione che si adegua”, diceva il filosofo greco. E Carlo Rovelli, il fisico, cita spesso questo frammento per spiegare come la ricerca scientifica procede nella comprensione del mondo. Analogo, in fondo, il procedere politico di De Mita: osservava, calcolava, quindi mutava atteggiamento e si spostava dai precedenti approdi pur di non peggiorare le cose con l’immobilismo. Da qui, anche, certi scarti improvvisi nelle alleanze e perfino nei rapporti amicali. Sono in molti a saperne qualcosa. Il nostro Stefano Caldoro, ad esempio, «tradito» in una notte per Vincenzo De Luca. O anche, ma in senso opposto, Ortensio Zecchino che dopo una celebre e dolorosa rottura se lo ritrovò, vicino e partecipe, insieme con Mattarella, a una manifestazione del suo Biogem ad Ariano Irpino. Prevedibile, dunque, l’obiezione che tira in ballo l’opportunismo o altre cose del genere ben note in ambito democristiano. Tuttavia, a fare la differenza è il contesto politico-culturale in cui De Mita si muoveva. Dal mutamento democriteo al movimento politico il passo è breve. De Mita è stato un teorico della politica come movimento. E molto si è dedicato al movimento politico per antonomasia, al sessantotto. Per giunta, mentre altri torcevano il naso. Ad esempio, Prodi. «Accadeva il ‘68, ma io stavo facendo altro…», ha confessato nel suo ultimo libro. All’uomo che proprio De Mita aveva scelto per modernizzare la struttura industriale del Paese non piacevano «gli slogan, la retorica, i voli pindarici e gli astrattismi». A De Mita, invece, tutta quell’immaginazione piaceva, eccome. Pensava, e lo raccontò a due filosofi non democristiani come Roberto Racinaro e Biagio de Giovanni, che solo prefigurando un mondo, lo puoi istituire. Il problema, dunque, non è l’astrattezza in sé, ma cosa immagini e come credi di dover procedere. In questo senso, disse, «il 68 può essere letto come un grande bisogno di libertà». In proposito, citava Moro che nella contestazione di allora coglieva due effetti, due elementi di novità: il protagonismo dei giovani e quello delle donne. Ma lo superava anche, perché oltre gli effetti vedeva le cause positive di quel sommovimento: il Concilio Vaticano II, la diffusione dell’istruzione, il passaggio dalla radio alla televisione. Il problema – ammise- si pose dopo, quando a quella domanda non fu trovata la risposta giusta. E si può anche pensare che fu tutta colpa della Dc. Ma attenzione. Al tempo, i comunisti vedevano nei movimenti l’anticipazione della storia. Ma la storia che loro portavano a modello era già sulla via della dissoluzione. «Un paradosso», rifletteva De Mita. Già allora non parlava da democristiano, da difensore d’ufficio del suo partito, bensì da democristiano, senza la esse; da teorico del mutamento, della politica come processo infinito, come continua sfida tra immaginazione e istituzione. Né più né meno che quello che ha detto Mattarella nel salutarlo per l’ultima volta: «Il suo impegno politico ha sempre avuto al centro l’idea della democrazia possibile. Quella da costruire e vivere nel progressivo farsi della storia… Nasceva da questa visione della democrazia come processo inesauribile l’attenzione per il rinnovamento e l’adeguamento delle nostre istituzioni». La newsletter del Corriere del MezzogiornoSe vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. 28 maggio 2022 | 07:49 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

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