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Da che parte stanno i russi? I giovani di Navalny e la signora Tatjana

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di Marco Imarisio

La campagna di Putin contro l’Occidente è stata così efficace che a fianco dei “ribelli”, che rischiano botte e carcere, molti ancora credono alla propaganda battente dello zar. Viaggio tra due Russie

«Tanto non serve a niente». La signora Tatjana ripone la sua asta telescopica con una espressione quasi divertita per il fuori programma al quale assiste in presenza. Stava per farsi un selfie insieme al figlio maggiore sullo sfondo del teatro Bolshoi quando intorno a lei ha notato un po’ di trambusto. Quattro agenti dell’Omon, l’equivalente del reparto celere della nostra Polizia, stanno trascinando, uno per ogni arto, una ragazza verso un furgone. Con le mani libere, ogni tanto le tirano una manganellata, che la ragazza subisce in silenzio, quasi con rassegnazione, consapevole del fatto che se urla, se protesta ancora, la sua situazione peggiorerà, nell’immediato e in futuro. È scritto anche nei manuali diffusi in clandestinità dalle associazioni pacifiste. Se vi fermano, declinate i vostri diritti. Se vi portano via, state zitti, non rispondete.

Il MESSAGGIO: «SE POTETE FARE UNA MARCIA, FATELA NEL FINE SETTIMANA. PROVIAMOCI. IL PRIMO GIORNO POTREBBE ESSERCI POCA GENTE, E IL SECONDO ANCORA DI MENO. MA DOBBIAMO, STRINGENDO I DENTI E SUPERANDO LA PAURA, FARCI VIVI E RIVENDICARE LA CESSAZIONE DELLA GUERRA»

Mica una domenica qualunque. Era il giorno della prima manifestazione convocata con un messaggio registrato chissà come da Aleksej Navalny, il nemico numero uno di Vladimir Putin, il dissidente avvelenato in Siberia nell’agosto 2020, salvato per miracolo in un ospedale tedesco, subito arrestato appena tornato in Russia, condannato a una pena di due anni che sta scontando nella Colonia di correzione IK-2 a Pokrov, non lontano da Mosca, nella regione da cui proviene il presidente russo. Ogni tanto lo si rivede, perché gli hanno affibbiato un altro processo, per oltraggio alla corte, possibile anzi probabile un’altra condanna a dieci anni di carcere. «Se potete fare una marcia, fatela nel fine settimana. Proviamoci. Il primo giorno potrebbe esserci poca gente, e il secondo ancora di meno. Ma dobbiamo, stringendo i denti e superando la paura, farci vivi e rivendicare la cessazione della guerra. Ogni arrestato deve essere sostituito da altri due che si presentano al suo posto. Se per far finire la guerra dobbiamo stipare le carceri e le camionette, lo faremo. Tutto ha un prezzo e ora nella primavera del 2022, questo prezzo lo dobbiamo pagare noi. Non c’è nessun altro che possa farlo. Non dobbiamo “essere contro la guerra”. Dobbiamo lottare contro la guerra».

Piazza e immagine del Paese

Così parlava Navalny, come uno che sa qual è il prezzo da pagare per questi ragazzi. Provarci, come se fosse facile il dissenso, nella Russia di oggi, dove non c’è da affrontare solo lo schieramento massiccio delle forze dell’ordine, ma anche gli sguardi di indifferenza della signora Tatjana, che non vuole essere disturbata durante la sua visita a Mosca, un viaggio organizzato dall’Associazione combattenti di Elektrostal, duecentomila abitanti a sessanta chilometri dalla capitale, mogli e figli dei soldati dell’esercito in pensione, un torpedone partito all’alba e ora parcheggiato in mezzo ai blindati, rientro in serata, pranzo al sacco. «Dov’è l’utilità di tutto questo agitarsi?» si chiede la donna, con un fastidio crescente, forse dovuto più al vento che le solleva il foulard e contribuisce anche lui a rovinarle l’inquadratura della foto ricordo.

LA DIFFIDENZA RUSSA: «SONO FIGLI DI PAPÀ E ROVINANO L’IMMAGINE DEL PAESE SOLO PER RICEVERE APPLAUSI DAI NOSTRI NEMICI»

«Questi figli di papà rovinano l’immagine del nostro Paese, rovinano sé stessi, solo per sentirsi importanti e ricevere qualche applauso dai nemici della Russia». Il figlio approva con vigorosi cenni di assenso, sembra indignato per questo rimpiattino tra guardie e ladri, lui usa proprio questo termine, che sta rovinando la domenica di mamma. «Per colpa loro, oggi hanno chiuso la piazza Rossa, e noi non possiamo visitarla» è questo il suo contributo alla discussione. Dalla tasca della ragazza trascinata via intanto sono caduti alcuni bigliettini. Nessuno li raccoglie.

Un altro mondo

Non è più una questione di padri e figli, come ai tempi del romanzo di Turgenev, dove si raccontava del rapporto conflittuale tra tradizione e rinnovamento nella grande Russia conservatrice dove affioravano i primi timidi moti liberali. Quel conflitto esiste ancora, se vogliamo. Ma si è allargato, non investe più soltanto generazioni diverse, ma due diverse idee di società, di visione del mondo. E la parte con la quale ci viene quasi naturale stare, quelle degli attivisti, degli studenti che protestano, si è ristretta negli ultimi anni, assumendo un valore di testimonianza, importante ma pur sempre di una nicchia incompresa a casa propria. In questi giorni di manifestazioni decise in modo clandestino, perché non ci sono più spazi o piattaforme disponibili per comunicare, tutto viene occupato della voce unica del governo.

L’eco della radio

Radio Eco di Mosca, il canale indipendente che divenne famoso per il suo racconto in diretta del tentato Golpe dell’agosto 1991, è stata la prima vittima del decreto contro le molto presunte Fake news sulla guerra in Ucraina (vietato chiamarla così) approvato con 411 voti favorevoli e zero contrari dalla Duma. Un minuto dopo lo spegnimento, le sue frequenze sono state occupate da Radio Sputnik, l’emittente governativa. È una legge della fisica applicata alla repressione delle voci contro. Gli spazi lasciati vuoti vengono riempiti a forza, riducendo così la possibilità di riprenderseli. Nel 2017, le grandi manifestazioni di Navalny che tanta impressione e speranza destarono in chi sogna una Russia plurale, più simile alla nostra idea di democrazia, si svolsero nell’enorme piazza del Maneggio, davanti al Cremlino. Oggi, quell’area così grande non esiste più, è stata dimezzata da scalinate e altri ingombri monumentali senza alcun senso architettonico costruite in mezzo alla piazza dal sindaco di Mosca, fedelissimo di Putin. I turisti le fotografano con voluttà, senza farsi troppe domande sulla loro vera ragion d’essere. «Voi non capite che il più grande alleato di Putin è stato la pandemia».

DURANTE I CORTEI I RAGAZZI LASCIANO CADERE BIGLIETTINI CON SCRITTO «PUTIN, CHE TU SIA MALEDETTO». E VENGONO PORTATI VIA
Il leader del Cremlino è stato veloce

Andrej Kurajev riceve in un ufficio che in realtà è uno sgabuzzino nel seminterrato di un negozio di alimentari. È una figura nota dell’attivismo russo, teologo, missionario, protodiacono di quella Chiesa ortodossa che per bocca del patriarca Kirill si è fatta megafono del Cremlino, in una unione tra potere temporale e politico che neppure ai tempi dell’Unione Sovietica. Sostiene che le manifestazioni del biennio 2017-2019, quest’ultimo anno segnato dai cortei dei pensionati, che vedevano il loro potere d’acquisto diminuire sempre più per via della crisi economica, avevano lanciato un segnale forte. «Sembrava che qualcosa potesse succedere, sembrava che un cambiamento fosse davvero possibile, almeno in termini di emersione della disapprovazione delle politiche del Cremlino». Putin è stato il più veloce di tutti a capirlo. «Il mondo guardava al Covid, lui intanto stringeva i bulloni sulla società russa».

Il «Puting»: cortei pilotati dal presidente

L’odissea imposta a Navalny è stata soltanto il segnale più vistoso, l’unico impossibile da ignorare dall’esterno. L’occupazione quasi manu militari della rete, la chiusura o la limitazione del margine di azione delle testate indipendenti non è stata una brusca accelerazione decisa dopo l’invasione dell’Ucraina, ma una progressione cominciata alla fine dell’ultimo anno delle nostre vite senza il Covid. In quel periodo, si è intensificato anche il Puting, altra definizione coniata dal dissidente più famoso del mondo, un incrocio tra meeting e Putin che indicava i comizi a favore del presidente che riempiva le piazze con cortei di dipendenti pubblici e studenti convocati a forza, con cartelli e coreografie tutte uguali tra loro. Era una sorta di contrappeso, di bilanciamento di una realtà che in quel momento sembrava potenzialmente sfavorevole alla narrazione del Cremlino. Oggi, non c’è neppure più bisogno di quell’aiuto autoindotto. «Non si può capire il vuoto cosmico in cui si muovono questi ragazzi che protestano, e quindi il loro coraggio, se non si tiene a mente a questo» conclude mesto Kurajev. Il “nonno del bunker”, altra celebre ironia di Navalny, si è dimostrato sveglio a capire l’umore avverso di quei giorni ormai lontani. E ha usato tutto il potere di cui dispone per cambiarlo. E per asciugare il consenso trasversale del quale godeva il suo principale avversario.

I “figli” di Navalny

Oggi non restano che i giovani. L’età media delle oltre 6.000 persone arrestate durante le manifestazioni delle ultime due settimane è ben sotto i trentacinque anni di età, senza prendere in considerazione i bambini. «Conta esserci» dicono in ossequio alla dottrina Navalny i ragazzi che in questa domenica di quasi primavera giocano a rimpiattino con gli agenti dell’Omon. I mezzi per comunicare sono sempre meno accessibili, i gruppi su Telegram vengono chiusi così all’improvviso, da interventi esterni. L’adunata in piazza Pushkin è resa impossibile del dispositivo di sicurezza. Così, si spostano lungo le vie del centro, in cerca di un approdo sicuro, che non esiste. A ogni passo, qualcuno viene portato via. Ci sono, e basta. Non possono gridare, non possono mostrare cartelli, solo far cadere dalla tasca questi bigliettini grandi poco più di un biglietto da visita. Sul loro cammino incontrano tante signore Tatjana, anche qualche loro coetaneo che gli fa il segno della zeta, lo stesso disegnato sui carri armati che avanzano sulle strade ucraine, lo stesso che tutto il mondo ha visto sulla tuta del ginnasta ventenne Ivan Kuliak, condannando e invitando alla sua squalifica. Anche quel ragazzo è Russia. A noi può non piacere, ma è così. Non è una pecora nera, ma il prodotto della nuova dottrina nazionale approvata in corso di approvazione presso il Ministero dell’Educazione, ma già in vigore da anni.

Periferia d’Europa

«Non è solo tradizionalista e conservatrice» spiega il professor Andrej Zorin, unico docente russo ad avere una cattedra ad Oxford riuscendo al tempo stesso a conservare un legame con l’università russa, biografo di Tolstoj, autore di un saggio intitolato La Periferia d’Europa, ovvero di come la Russia abbia alterato la percezione di quelle terre, come l’Ucraina, che la separano dal nostro continente. «Fin dal suo arrivo al potere, Putin si è dedicato a cambiare in modo radicale la percezione della nostra storia. Quella in vigore oggi e sui libri di storia si basa sul senso della rivincita e dell’incomprensione. Noi amiamo il mondo, sembra dire, siete voi che non ci amate. In questo senso, la sconfitta è sparita dai nostri testi scolastici. Prima perdiamo, poi finiamo col vincere, siamo diventati un popolo che vive nell’eterna attesa di una rivincita. La dissoluzione dell’Unione sovietica, così come il mancato o parziale successo delle operazioni in Ucraina nel 2014, sono così vissute come una ingiustizia alla quale il Cremlino sta ponendo rimedio, cambiando ancora una volta il corso della nostra Storia, come accadde contro Napoleone, contro i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, e ora contro l’Occidente intero. È un trucco da illusionista, imposto con la forza. Ma funziona».

I GIOVANI RUSSI CHE CONTESTANO PUTIN SONO CRESCIUTI SU QUEI SOCIAL AI QUALI OGGI NON HANNO PIÙ ACCESSO, E DEI QUALI PROPRIO NAVALNY ERA CAMPIONE INDISCUSSO, CON IL SUO USO FORSENNATO E STRATEGICO DI INSTAGRAM

I giovani figli di Navalny o dell’Occidente che siano, come vengono spesso chiamati con disprezzo dai media ufficiali, parlano una lingua sconosciuta alla pancia del loro Paese. Usano termini inglesi, come community, coming out, harassment, per i quali non esistono parole e neppure concetti simili in russo. Parlano di ambiente, razzismo e omofobia, non considerano “femminismo” un insulto come invece fanno molti dei loro genitori. Sono cresciuti su quei social ai quali oggi non hanno più accesso, e dei quali proprio Navalny era campione indiscusso, con il suo uso forsennato e strategico di Instagram. Soprattutto, sognano di andarsene da una nazione e da un nazionalismo che sentono molto lontano da loro. «Putin ci ha messo in gabbia, non solo fisicamente» ci racconta una studentessa di Belle Arti incontrata durante una delle tante fughe di queste manifestazioni. «Siamo dentro, senza possibilità di uscirne, mentre il mondo al quale sentiamo di appartenere punta il dito contro il nostro Paese».

Via da Mosca

Un giorno se ne andranno, come sogna oltre il cinquanta per cento degli under 24 russi. Ma intanto provano a far sentire la loro voce, con questi cartelli “No alla guerra”, l’equivalente delle nostre bandiere Arcobaleno, per i quali rischiano il carcere, la schedatura a vita. «Portate rispetto per questa nuova generazione di russi» dice Michael Naki, giornalista della defunta Radio Eco. «Perché il peso che portano sulle spalle è l’unica eredità che rimane della vecchia Unione Sovietica». La manifestazione è finita. Anzi, non è mai cominciata. A Mosca erano in duemila, ma non sono mai riusciti a radunarsi tutti insieme. Il gruppo più consistente, formato da trecento persone, è finito nell’imbuto creato apposta in piazza della Lubjanka. Ne incontriamo alcuni su una panchina di un vicolo laterale dell’enorme palazzo che fu la sede del Kgb, e anche questo sembra uno scherzo della Storia, quella con la esse maiuscola. Si sono liberati dei bigliettini che riempivano le loro tasche, e quelle della giovane arrestata davanti al Bolshoi. Sono tutti uguali. C’è scritto sopra “Putin, che tu sia maledetto”. Sui volti dei ragazzi sono dipinte espressioni di delusione. Non parlano, tacciono e intanto riprendono fiato. Non è stata una buona giornata. Per loro non potrà mai esserlo, nella Russia di oggi.

18 marzo 2022 (modifica il 18 marzo 2022 | 07:13)

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, 2022-03-18 06:15:00, La campagna di Putin contro l’Occidente è stata così efficace che a fianco dei “ribelli”, che rischiano botte e carcere, molti ancora credono alla propaganda battente dello zar. Viaggio tra due Russie, Marco Imarisio

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