Bossi Fedrigotti e la chiamata di Mario Spagnol  alle 7 del mattino:  «Così diventai scrittrice»

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di Isabella Bossi Fedrigotti

Isabella Bossi Fedrigotti racconta l’editore Spagnol, tra consigli preziosi e affettuose minacce per le bozze in ritardo. Grande scopritore di talenti, sapeva creare gli autori

I suoi colleghi delle altre case editrici lo chiamavano «velociraptor». Per indicare la sua velocità e la sua grinta nell’accaparrarsi un autore del quale pensava potesse avere successo in libreria. Mario Spagnol, il mitico editor ed editore, passato attraverso tutte le maggiori case editrici per concludere la sua carriera alla Longanesi, da lui rifondata e rilanciata, si muoveva in effetti rapidissimo e deciso, fermamente convinto che anche le opere di qualità potessero entrare nella lista dei bestseller e non soltanto i libracci firmati da qualche campione sportivo o altro personaggio pubblico oppure ispirati a serie televisive. Quelli che, schizzinoso com’era, in cerca sempre e ovunque della bellezza, definiva «fuffa».

Uno scopritore di talenti

Molto tempo prima di sapere come lo chiamavano i suoi colleghi editori, ho potuto fare esperienza personale del suo istinto di velociraptor. Avevo terminato (credevo di aver terminato) il mio primo libro, Amore mio uccidi Garibaldi, e andavo in cerca di editore, una via crucis che tocca a tutti gli esordienti, strada segnata da molte sconfitte, non raramente soltanto da sconfitte. Lavorando in un giornale partivo avvantaggiata in quanto conoscevo alcuni editor, ma fu ugualmente una via crucis. Ricordo un addetto ai lavori che al telefono non mi lasciò il tempo di spiegare cosa avevo scritto bloccandomi con un sospiro annoiato: «Anche tu hai scritto un libro…». E un altro che, dopo aver letto il manoscritto, mi aveva convocato. «Questo non è un romanzo, non è un epistolario, non è un saggio storico…» mi spiegò passando poi a illustrarmi tutti i cambiamenti che avrei dovuto fare, in pratica non una riscrittura però una esauriente risistemazione del testo. Promisi che avrei tentato ma fuori di lì decisi di lasciar perdere i miei sogni di scrittura. Una mia collega gentile che mi aveva visto avvilita mi disse allora che conosceva Mario Spagnol, che avrebbe avuto occasione di incontrarlo e che, se volevo, gli avrebbe dato il mio manoscritto.

Un editor straordinario

Il velociraptor del quale io non sapevo nulla mi svegliò con una telefonata alle sette di mattina di qualche giorno dopo, dicendomi soltanto: «Facciamo il contratto». Subito dopo — ecco perché oltre che editore era anche uno straordinario editor — abbiamo cominciato a lavorare insieme sulle pagine, lui che segnava con la matita — come un maestro di scuola — quel che non gli piaceva, ma sempre chiedendomi se fossi d’accordo con le modifiche che proponeva, modifiche che riguardavano non soltanto il testo ma a volte anche qualche vocabolo da lui giudicato troppo locale (trentino), troppo giornalistico o troppo attuale rispetto al tempo dell’azione. Un procedimento da certosino assoluto.

La telefonata

Qualche tempo dopo mi richiamò quell’editor che aveva preteso una lunga serie di modifiche, in verità non molto più lunga di quelle suggeritemi da Mario Spagnol, ma farle insieme sotto la sua guida era diverso dal farle da sola. Mi chiese se avessi iniziato a lavorare sul manoscritto ed io, con voce tremante per l’imbarazzo dovetti fargli presente che avevo già firmato un contratto. «Con il caro Spagnol immagino» mi rispose con voce gelida e per molto tempo non mi rivolse più la parola.

La forza della passione

Mario rimase il mio editore fino alla sua morte, né avrei mai osato «tradirlo» perché mi incuteva un sacrosanto rispetto. Le sue telefonate, temute e regolari, erano per sollecitarmi a scrivere, ricordarmi i tempi urgenti, una volta minacciandomi anche una multa per ritardata consegna delle ultime bozze. Ma se non fosse stato per lui avrei smesso di scrivere e non sarei andata oltre Garibaldi. Quando cercai di spiegargli la mia intenzione insistette («Tu hai una voce, sarebbe peccato lasciar perdere…») fino a quando non gli diedi retta. Mi ha inventata lui? Sì, perché ha avuto fiducia in me, mi ha seguito, incoraggiato, anche guidato, non dico con tenerezza, però con attenzione. E perfino lodato, qualche volta. Mi ha fatto gettare via cinquanta pagine di un giallo ambientato al Corriere della Sera che mi ero divertita a scrivere inventandomi l’assassinio di un caporedattore centrale. «Non fa per te», sentenziò, sulla parola, senza nemmeno aver dato un’occhiata al manoscritto.

La solitudine di chi scrive

E quando gli dissi che mi sarei sposata ne fu un po’ contrariato, e fino a oggi non so se il suo rammarico fosse vero o simulato. «È meglio che uno scrittore non abbia famiglia, e questo vale ancora di più per una scrittrice che dovrà far da mangiare e occuparsi dei bambini. Le vite ordinate lasciano meno spazio all’ispirazione di quelle disordinate» mi spiegò.

La capacità di creare autori

«Inventò» anche altri scrittori con istinto sicuro: sapeva sempre cosa poteva chiedere all’uno e all’altro, suggeriva letture proponeva argomenti. Alcuni di loro hanno poi avuto grande successo, ma forse non amerebbero essere definiti invenzioni dell’editore. Una volta gli domandai perché non suggeriva a un giornalista del quale aveva grande stima di scrivere un romanzo. «Un romanzo? — rispose —. Impossibile. Senza il cuore non si possono scrivere romanzi». Mario il cuore ce l’aveva? Molti ne dubitavano, io posso affermare che sì, ce l’aveva. E ne ebbi conferma nei suoi ultimi giorni.

L’ampre per tutto ciò è bello

Com’era fuori dal lavoro? Un bigamo di professione, prima di tutto, un po’ come un emiro con due mogli, ciascuna al corrente dell’altra. Amante del mare, di quello ligure dove era nato, amante di tavolate ristrette con gli amici, in primis Indro Montanelli, Giorgio Soavi, Umberto Veronesi, Francesco Micheli, con i quali gli piaceva discutere di libri, giornali, autori, commentatori e uomini politici. Amante — molto — anche di buoni cibi e buon vino. Amante di tutte le cose belle, case, quadri, mobili, paesaggi. Con una debolezza, le medicine. Ciascuna delle due mogli doveva custodire una piccola sacca piena dei farmaci di cui aveva bisogno o si immaginava di avere, in caso, bisogno. Eppure, era un uomo che non aveva paura di niente. Quando, dalla barca a vela di un amico cadde in acqua in pieno oceano e fu salvato in extremis, parlò poi sempre di quell’incidente che per pochissimo non fu mortale come di una nuotatina fuori luogo.

L’ultimo saluto

Che un cuore ce lo avesse me lo confermò dunque alla fine. Era ormai, povero velociraptor, inchiodato a letto dalla Sla e parlava a fatica. Andai a trovarlo, io stessa abbattutissima essendo stato diagnosticato a mio marito un tumore che non lasciava molte speranze. La moglie (la prima) forse per sciogliere l’atmosfera mi domandò se stessi scrivendo qualcosa. Mario, cui il lavoro dei suoi autori importava quasi più di ogni altra cosa, rispose per me: «Cosa vuoi che scriva, poverina, con il marito in quelle condizioni?».

10 settembre 2022 (modifica il 10 settembre 2022 | 22:42)

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, 2022-09-10 21:18:00, Isabella Bossi Fedrigotti racconta l’editore Spagnol, tra consigli preziosi e affettuose minacce per le bozze in ritardo. Grande scopritore di talenti, sapeva creare gli autori , Isabella Bossi Fedrigotti

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