Achille Occhetto e la morte del figlio Malcolm: il partito si stringe attorno all’ex leader del Pci

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di Tommaso LabateIl figlio, stroncato da un infarto, era nato in Sicilia, dove Occhetto – torinese per nascita e formazione, poi segretario provinciale di Milano – era stato mandato alla fine degli Anni Sessanta dal partito ROMA – «Sono passato dal tutto al niente nel giro di poche ore. Per descrivere la mia vicenda, uso l’immagine di un altoforno che va a pieno regime e che poi, improvvisamente, viene spento». Tutte le volte che dalle dimissioni del giugno del 1994 ai giorni nostri hanno chiesto ad Achille Occhetto della sua uscita di scena dal Pci-Pds, dal partito che per lui era stato casa, famiglia e comunità, da quella «cosa» che lui aveva radicalmente cambiato alla Bolognina facendo scomparire dalla carta d’identità quella parola – «comunista» – ecco, tutte le volte il segretario della «svolta» ha sempre usato quell’immagine. L’altoforno che «va a pieno regime e che poi, improvvisamente, viene spento». Non il forno, che lo riaccendi e riscalda. Ma l’altoforno, che come hanno insegnato anni di cronache dall’Ilva, una volta spento non si riaccende certo premendo un tasto. Dal tutto al niente, che poi non ritornerà mai qualcosa ma niente rimane. E dev’essere senz’altro per la potenza dell’immagine, oltre al suo essere profondamente vera e sincera rispetto alla permanenza di Occhetto nel mondo degli ex comunisti che l’hanno messo da parte e poi rimosso, se adesso tanti dei suoi vecchi «compagni» la ricordano nel momento del dolore, del tutto che diventa niente senza avere per davvero la possibilità di tornare qualcosa. Il momento in cui Achille Occhetto piange l’improvvisa scomparsa del suo primogenito Malcolm, annunciata ieri con un post su Facebook, che era nato dal matrimonio con l’attrice italo-somala Elisa Kadigia Bove. Solo l’intreccio tra la politica che si fa partito e il partito che si fa famiglia può spiegare determinati meccanismi ormai decisamente fuori dal tempo, come fuori dal tempo sembrano essere i partiti stessi. Come per i figli di tutti i dirigenti del Pci, Malcolm era un figlio del Pci. Era nato in Sicilia, infatti, dove Occhetto – torinese per nascita e formazione, poi giovanissimo segretario provinciale di Milano, quindi dirigente nazionale di Botteghe Oscure – era stato mandato alla fine degli Anni Sessanta per tentare di contrastare l’ascesa della Dc di Salvo Lima e Vito Ciancimino, negli anni tragici del «sacco di Palermo». Segretario della federazione del capoluogo, poi segretario regionale. Funzionava così, all’epoca: i migliori venivano mandati lontano da casa, là dove c’era bisogno. E la loro casa – e quella delle loro famiglie, i luoghi di nascita dei figli, i figli stessi – diventava là dove il partito aveva stabilito che fosse. Quel partito, poi, Achille Occhetto l’ha scalato. Alla morte di Enrico Berlinguer, nel 1984, per la successione circolano due nomi: il suo e quello di Luciano Lama. Verrà scelto, come segretario, Alessandro Natta. Ma quattro anni dopo, quando Natta finisce all’ospedale per un malore, nel garage di Botteghe Oscure – poco prima del telegiornale delle 20 – Occhetto sigla col suo alleato del momento (che sarebbe diventato il suo nemico interno dopo) Massimo D’Alema un patto che avrebbe retto il partito negli anni a venire. Una sorta di staffetta: oggi Occhetto, che va a guidare il Pci; domani D’Alema, che ripiega alla direzione dell’Unità prima e alla guida del gruppo parlamentare negli anni a venire. Nel frattempo, è il partito a essere cambiato. Anche grazie a un’intuizione di Occhetto. Tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, il neosegretario – celebrando alla Bolognina il quarantacinquesimo anniversario della battaglia di Porta delle Lame – annuncia la svolta. È il 12 novembre 1989. Un anno e tre mesi dopo, a Rimini, si apre il ventesimo e ultimo congresso del Pci, che diventa Partito democratico della sinistra. Lì, in quel momento, ascesa e caduta, altare e polvere, si fondono per Occhetto in una cosa sola. La «svolta» viene approvata ma per l’elezione di Occhetto, triturata dai franchi tiratori interni, non ci sono i numeri. La sua ultima elezione verrà formalizzata a Roma, lontano dall’impatto storico e dalle luci della ribalta dell’assise riminese. Il resto è storia: la rottura con D’Alema e un pezzo di gruppo dirigente, l’abito marrone del confronto tv con Berlusconi, la sconfitta alle elezioni politiche del marzo del ’94 e la goccia delle Elezioni europee di tre mesi dopo, che fa traboccare il vaso. «Akel», come lo chiamava il padre, esce dal gruppo ela sua foto scompare idealmente da ogni pantheon. Quando nel ’96 l’Ulivo vince le elezioni e quando nel ’98 D’Alema diventa il primo ex comunista a guidare il Paese da Palazzo Chigi, lui è nelle retrovie, a seguire una corrente di sinistra che poi lo porterà alla nascita di una «Lista Di Pietro-Occhetto» che sarà l’embrione del partito personale del solo Di Pietro, l’Italia dei valori. Nel momento del dolore per la scomparsa del figlio Malcolm, oggi, tutta la vecchia guardia del «partito» sta tornando a stringersi discretamente attorno a Occhetto, al segretario della «svolta». È tornata a riaccendersi quella fiammella di quasi trent’anni fa. La famiglia che torna partito, il partito che torna famiglia. E il niente che ritorna tutto, con quell’altoforno che riscalda ancora. Anche se a occhio nudo sembra, e irrimediabilmente, spento per sempre. 24 ottobre 2022 (modifica il 24 ottobre 2022 | 11:35) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-10-24 09:37:00, Il figlio, stroncato da un infarto, era nato in Sicilia, dove Occhetto – torinese per nascita e formazione, poi segretario provinciale di Milano – era stato mandato alla fine degli Anni Sessanta dal partito, Tommaso Labate

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