Studenti violenti: punizioni e sospensioni? Armi spuntate. Cosa fare, dunque? Impariamo a litigare bene, ecco come fare. INTERVISTA a Professor Novara

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Proseguiamo il nostro approfondimento sugli episodi di cronaca relativi ad azioni violente nell’ambito della scuola, ne abbiamo parlato con il Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, per cercare di capire quali iniziative possiamo mettere in atto per prevenirli.

Professor Novara, dopo l’emergenza Covid-19 assistiamo ad un aumento di atti di violenza all’interno della scuola. È solo perché c’è maggiore attenzione oppure effettivamente i nostri ragazzi hanno assunto atteggiamenti più aggressivi?

Il dato attualmente è un dato empirico, perché non abbiamo dal punto di vista statistico delle evidenze particolari. È importante, comunque, che l’opinione pubblica sia attenta, perché non possiamo permetterci situazioni, appunto, di violenza, situazioni che riguardano sostanzialmente gli adolescenti, perché parlare di violenza con i bambini non ha nessun senso, almeno dal punto di vista scientifico. Ci sono delle costatazioni da fare, la gestione del post Covid-19, a livello scolastico, non c’è stata. Come a suo tempo avevo chiesto al Ministero di lavorare sulla formazione degli insegnanti nella situazione Covid-19, o appena post Covid-19, perché era una situazione inedita, pensiamo alla questione della DAD dove gli insegnanti non avevano praticamente nessuna preparazione e si sono trovati dentro questa situazione nuova, allo stesso modo purtroppo vale per i bambini e gli adolescenti. In realtà il Ministero qualcosa ha fatto spedendo nelle scuole un numero elevato di psicologi. Questo può essere però un equivoco, nel senso che lo psicologo ha una funzione sostanzialmente terapeutica, invece noi stiamo parlando di situazioni educative. Se gli alunni tirano dei pallini ad un insegnante, o se lo insultano davanti a tutti, oppure, come era successo a Lucca diversi anni fa, aggrediscono un docente, palesemente in difficoltà, riprendendo la scenda e diffondendola, è chiaro che non si tratta di problemi di carattere psicologico o psicoterapeutico, ma di problemi educativi. Torniamo alla solita drammatica carenza della scuola italiana dove pur avendo la più grande pedagogista dei tempi moderni, Maria Montessori, la pedagogia è stata esclusa dal tavolo di lavoro scolastico. Fino a vent’anni fa la presenza pedagogica era prevista nelle scuole, poi è stata eliminata definitivamente ed oggi l’Italia è l’unico paese in Europa che non prevede una specifica presenza pedagogica, tenuto conto che non stiamo parlando dei docenti di pedagogia all’università, ma di professionisti dei processi educativi e dei processi di apprendimento, molto necessari. Prendiamo un caso di aggressione verso gli insegnanti, come si gestisce? Solamente con le punizioni e le sospensioni? È logico che queste sono armi spuntate, occorre partire dal presupposto che questi sono ragazzi che hanno bisogno di un’implementazione di apprendimento e non di toglierglielo. Certamente in alcuni casi un minimo di allontanamento può essere utile, però devono avere un percorso. Poi siamo sicuri che tutti gli insegnanti italiani siano in grado di gestire la classe, la classe come gruppo, specie in età adolescenziale, oppure sono insegnanti esperti nella loro materia, soprattutto nella scuola secondaria di secondo grado, ma meno preparati sulle dinamiche socio-relazionali, socio-emotive e di relazione di gruppo degli alunni fra di loro e con gli insegnanti? Queste sono le solite domande alle quali non si ha una risposta e poi la situazione peggiora.

Lei ha sviluppato un metodo per la gestione dei conflitti a partire dai bambini più piccoli, ci spiega come funziona e se è possibile applicarlo anche agli adolescenti?

Il metodo si chiama “Litigare bene”. È un metodo che stiamo esportando all’interno di un progetto a livello europeo e che ha trovato riscontri anche a livello internazionale tant’è che sta per uscire la traduzione del mio libro addirittura in Cina. Ritengo semplicemente che anche a livello pediatrico la capacità di litigare bene, ovvero di farcela da soli, andrebbe inserita tra le autonomie di base dei bambini, a partire dai 3 anni. Così come sanno camminare, parlare e avere il controllo sfinterico, è importante anche litigare bene con i propri compagni. Viceversa alcuni insegnanti sono ancora abbarbicati nell’idea archeologica del cercare il “colpevole” del litigio. Devo dire che in questi ultimi 10 anni il mio metodo ha girato tanto ed è conosciuto, anche tra gli insegnanti italiani, mentre l’applicazione lascia ancora a desiderare. Il metodo è estremamente semplice ed efficace, si invitano i bambini a gestire tra di loro le contrarietà parlandosi in uno spazio specifico, che chiamiamo il “conflict corner”, utilizzando ad esempio un gomitolo o dei disegni. Quindi, come direbbe Maria Montessori, aiutiamoli a fare da soli. È chiaro che l’adulto deve evitare che i bambini si facciano del male, ma è importante l’applicazione del metodo che non consiste nel far parlare i bambini con gli insegnanti, che è il metodo tradizionale, ma bisogna attivare la capacità dei bambini di chiarirsi tra di loro. Ognuno esprime la propria versione, non all’insegnante ma al compagno, e parlando tra di loro rappresentano le proprie ragioni. Il risultato, se il metodo viene eseguito, è inequivocabile e permette anche agli insegnanti di avere minore stress e non dover essere dei “giudici” delle controversie dei loro alunni. Bisogna che le maestre facciano in modo che le bambine ed i bambini dai 3 ai 10 anni imparino da soli. Questo è il nostro contributo quali esperti nei processi di apprendimento e nelle autonomie infantili. Per quanto riguarda l’applicazione di questo metodo anche per gli adolescenti devo dire che è possibile, abbiamo diverse sperimentazioni in corso che ci portano a questa conclusione. Il problema è che i preadolescenti e gli adolescenti non amano il controllo degli adulti, quindi è molto più improbabile che questi ragazzi vadano dall’insegnante a condividere il litigio con un altro compagno. Quindi il metodo è lo stesso, ma bisogna creare delle situazioni di apprendimento fra gli alunni stessi quando frequentano la scuola secondaria, sia di primo che di secondo grado. Da questo punto di vista abbiamo sviluppato da diversi anni, già dal 1999, uno strumento molto utile che è la “Mostra conflitti litigi ed altre rotture”. Non è una vera mostra, è uno strumento interattivo realizzato con 10 gazebi dove all’interno di ognuno ci sono delle attività da svolgere in gruppi di 4 alunni con un diario di bordo. Questo è un metodo che li fa lavorare insieme proprio per imparare a gestire tra di loro i litigi e i conflitti senza aggressione, senza colpevoli, ma in uno spazio di composizione dove si impara a comunicare bene, cercando di ascoltarsi nelle proprie versioni. Questo è il nostro metodo, devo dire che agli adolescenti, a livello scolastico, manca molto il senso della discussione. La scuola, rispetto agli anni ‘70, ’80 e ’90, ha abbandonato il tema della discussione in classe. Voglio ricordare i libri di Clotilde Pontecorvo, che ci ha lasciati qualche mese fa, proprio dedicati all’importanza psicologica del discutere insieme in classe. Anche su questo aspetto il nostro istituto ha sviluppato uno strumento molto efficace che si chiama il “dibattito maieutico”. Dobbiamo aiutare i ragazzi a discutere insieme, altrimenti non gli resta altro che la rissa. Se questo non lo fa la scuola chi lo deve fare? La scuola ha una funzione di apprendimento a 360°.

Il 7 febbraio sarà la giornata nazionale per la lotta al bullismo. Ma non tutta la violenza è bullismo. Come identifichiamo questi due aspetti?

Il bullismo vero e proprio può essere definito come violenza, però bisogna che si tratti effettivamente di bullismo. In Italia abbiamo un problema legato alla traduzione di questo termine dall’inglese. Faccio una digressione linguistica, il termine bullismo deriva dalla traduzione del verbo inglese to bull che in inglese è un termine drammatico, pesantissimo, con una composizione semantica attinente al sadismo, cioè fare del male agli altri con sadismo. In italiano, viceversa, il bullo è inteso come lo spaccone, almeno in tante regioni, perché il senso può differire a seconda del contesto in cui ci troviamo, e quindi, a fronte di questa differenza semantica tra il termine originale inglese e quello italiano, si è scelta la strada più equivoca, cioè di utilizzare il sinonimo di prepotenza come sinonimo di bullismo, questo è un equivoco. Dieci/quindici anni fa giravano questionari, ma purtroppo ancora girano, nei quali si chiedeva a bambini di 9 anni se avessero mai subito prepotenze dai propri compagni di classe, era ovvio che la percentuale di risposte affermative fosse altissima. Se chiediamo ad un bambino che è all’apice del suo vittimismo se ha mai subito delle prepotenze è normale che risponda di sì. Ad esempio se chiedessi al mio nipotino se a scuola lo picchiano risulterebbe che tutti lo picchiano, poi se andiamo a chiedere alla maestra, per fortuna, la situazione non è quella descritta. Quindi ci sono queste difficoltà nell’uso della terminologia che scientificamente si riferisce ad una parola inglese totalmente diversa da quella italiana, e non è corretto tradurre to bull con fare prepotenza. Così come non si può parlare di bullismo nei bambini fino ai 9 anni, perché possiamo parlare di bullismo se si verificano tre condizioni: l’intenzione di fare del male, in maniera continuativa, ai danni di un soggetto che non è in grado di difendersi. Per avere l’intenzione di fare del male il bambino deve disporre di un pensiero, sia a livello di corteccia prefrontale sia a livello di quello che Jean Piaget definiva la capacità reversibile, ovvero la capacità di considerare adeguatamente le conseguenze, che il bambino fino ai 9 anni non ha. Certo i bambini possono avere dei gesti incontrollati, quindi ci possono essere degli incidenti, ma l’intenzionalità in quanto tale incomincia a inserirsi nella vita dei bambini, che poi sono dei ragazzi, a cominciare dall’11/12 anno di età, questo ci dicono i dati psicoevolutivi, poi possiamo arrampicarci sugli specchi perché abbiamo il mito della sicurezza, ma a questo punto non ha neanche senso far intervenire gli esperti della materia, basta ricorrere al “fai da te”. La scuola non ha bisogno del fai da te, ha bisogno di basi scientifiche. Quindi possiamo parlare di bullismo quando si verificano queste tre condizioni. La continuità è importante, non possiamo parlare di bullismo se ci troviamo di fronte ad un singolo episodio di violenza. Certamente è un atto di violenza, mentre il bullismo è una violenza basata sulle tre condizioni di cui ho parlato prima e che ripeto: intenzionalità, continuità e inferiorità, l’ho scritto tanto e c’è anche un mio libro dedicato a questo argomento, scritto con lo psicologo Luigi Regoliosi, dal titolo “I bulli non sanno litigare”. Senza queste tre condizioni possiamo parlare di altro, ma non di bullismo che come ci dice il verbo inglese è un’efferatezza particolare. In Inghilterra i dati sul bullismo venivano e vengono ancora utilizzati per prevedere i posti nelle carceri minorili. La lingua italiana, purtroppo, non rende ragione all’efferatezza del termine bullismo e quindi si creano degli equivoci come, ad esempio, pensando che bambini di 3 anni siano dei bulli. Il litigio tra i bambini e tra gli adolescenti non c’entra niente con il bullismo, non possiamo proibire il litigio, dobbiamo, invece, proibire il bullismo, quello di cui ho parlato prima.

In un suo recente libro lei parla della gestione dei tasti dolenti. È possibile che già in giovane età siano alla base di comportamenti scorretti?

Per identificare la base del comportamento scorretto possiamo partire dagli studi della sociologa palermitana Gigliola Lo Cascio che negli anni ‘90 ha scritto un libro molto interessante, edito dalla Guerini, intitolato “Apprendere la violenza”. In questo libro lei, insieme al suo staff, propone una serie di domande ai bambini dei quartieri più sfortunati di Palermo, ed una delle domande era la seguente: “Ti picchiano i tuoi genitori?”, le risposte date erano incredibili, molti bambini rispondevano dicendo che i loro genitori non li picchiavano, ma gli davano pedate, bastonate, ceffoni e botte in testa. Da qui possiamo capire perché lì c’è la Mafia, ossia la Mafia usa dei criminali con un bassissimo indice di empatia, quasi nullo, i cosiddetti alessitimici gravi, che non sentono la sofferenza altrui. Oggi è un aspetto tornato alla cronaca dopo l’arresto del Boss Matteo Messina Denaro, uno dei Boss più efferati. Sia la Mafia americana che quella italiana selezionano il personale per gli atti più efferati tra questi soggetti, perché non sentono niente a livello emotivo, sono capaci di qualsiasi atto, capaci di uccidere una persona con la stessa semplicità con cui noi beviamo un bicchiere d’acqua. Ma chi sono questi soggetti? Sono bambini picchiati, che hanno subito, per tutta l’infanzia, la violenza da parte delle figure educative, in primis i genitori. Quindi hanno una desensibilizzazione particolare alla violenza stessa. Per loro la violenza è come l’aria che respiravano da piccoli, ma non una violenza subita dai loro compagni, ma direttamente dalle figure educative tra cui, fino ad un’epoca fa, rientravano anche gli insegnanti. Io stesso che sono un bambino degli anni ’60, ho vissuto questo aspetto, ovvero che a scuola si usavano le punizioni corporali, non è una novità. Quindi i tasti dolenti, da questo punto di vista, possiamo identificarli come le condizioni educative per cui un bambino perde il senso del rispetto reciproco, dell’ascolto reciproco, dell’empatia. Viene cresciuto in condizioni orribili e quindi per lui è quasi normale agire in maniera sbagliata, specialmente, e lo ribadisco, in adolescenza, perché sui bambini la scuola può intervenire, il loro cervello è molto plastico, assorbono, cambiano e se noi facciamo dei bei programmi come, appunto, “litigare bene” nella scuola, aiutando i bambini a comunicare tra di loro, ecco che otteniamo un recupero anche rispetto a condizioni familiari degradanti. La scuola è quel luogo dove si impara a vivere e non dove si imparano semplicemente delle nozioni.

Un’ultima domanda, parliamo spesso di un cambio di approccio educativo che porti a valorizzare le qualità di ogni singolo allievo, il parlamento ha anche approvato una legge sulla valorizzazione delle competenze non cognitive. A che punto siamo e quali azioni sono fondamentali per avviare questo processo di cambiamento?

Il parlamento può deliberare tutto quello che vuole, ma la risorsa principale della scuola sono gli insegnanti. In tutte le ricerche sulla qualità scolastica a livello mondiale il punto fondamentale resta l’insegnante in quanto tale, con la sua formazione professionale e pedagogica. In alcuni testi ho fatto appello affinché ci sia un test attitudinale, così come in tutte le professioni. Non possiamo permetterci che una professione così importante venga lasciata al fai da te personale, allo spontaneismo, dove un docente si sente di fare ciò che vuole all’interno della propria classe. Quindi si possono approvare progetti su progetti, ma bisogna assolutamente implementare la formazione psico-pedagogica e metodologica della didattica. Bisogna che negli insegnanti, a partire dalla scuola dell’infanzia e fino ad arrivare alla scuola secondaria di secondo grado, in particolare qui dove si ha a che fare con gli adolescenti, avvenga questo cambiamento. Come il mio amico Mario Lodi, sono molto preoccupato perché la scuola italiana su questo versante non riesce a muoversi. Qualche piccolo passaggio è stato fatto, come togliere la valutazione con i voti numerici alla scuola primaria, ma bisogna andare avanti. Dal Ministero non arrivano segnali pedagogici, arrivano segnali repressivi, e quando si è finito di punire cosa facciamo? Già la scuola, per la questione delle certificazioni neuropsichiatriche, a volte è simile ad una specie di ospedale neuropsichiatrico dei bambini, adesso la vogliamo trasformare anche in un carcere minorile? Sono iperboli quelle che sto consegnando ai nostri lettori, le uso per farmi capire. In pratica su quali metafore stiamo lavorando? La scuola come comunità di apprendimento o la scuola come contenzione? Qualcuno deve rispondere su questo, e questo qualcuno è la politica, è il Ministero. Secondo me l’opinione pubblica è più avanti del Ministero, su questo non ho dubbi. Ho di recente ascoltato la notizia che un assessore della Sud Tirolo chiede che nelle scuole secondarie di secondo grado non vengano più utilizzati i voti sotto il 4, una piccola cosa ma utile. Oppure le scuole che incominciano a fare una valutazione diversa, per non parlare delle tante esperienze di scuola nella natura, sono tutte iniziative importanti. Non possiamo però abbandonare la scuola pubblica in funzione di altri modelli, bisogna fare in modo che la scuola pubblica risponda ai bisogni dei ragazzi, dei genitori e dell’opinione pubblica, abbiamo bisogno di una scuola che sia alleata con i suoi alunni e non che sia in guerra con loro.

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