Steve Bannon condannato per «oltraggio al Congresso». «Così Trump non fermò l’assalto»

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di Giuseppe Sarcina

L’ex stratega della Casa Bianca si era rifiutato di rispondere alla convocazione della Commissione sul 6 gennaio. È stato uno dei pochi interlocutori di Trump nelle settimane precedenti il 6 gennaio

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

WASHINGTON — Tre ore e sette minuti. Immobile. Senza rispondere alle decine di chiamate dei consiglieri, dei parlamentari che lo imploravano di bloccare l’assalto a Capitol Hill . È l’immagine più sconcertante che ci consegna in diretta televisiva, giovedì 21 luglio, l’audizione della Commissione parlamentare sul 6 gennaio . Donald Trump è da solo nella saletta da pranzo, accanto allo Studio Ovale: lo sguardo puntato su un grande schermo, sintonizzato su Fox News. I testimoni di giornata, sia quelli presenti in aula che quelli sentiti in precedenza, sono d’accordo. Trump ha aspettato fino all’ultimo momento per rompere il silenzio via Twitter, con la folle speranza che quelle centinaia di vandali, di invasati, di «Sciamani», più i capetti dei «Proud Boys» e degli «Oath Keepers» potessero davvero annullare il risultato elettorale, cancellare la vittoria di Joe Biden.

Sono giornate dure per i trumpiani. Ieri la Corte federale di Washington ha condannato Steve Bannon per «oltraggio al Congresso». L’ex stratega della Casa Bianca si era rifiutato di rispondere alla convocazione di imperio (subpoena) della Commissione sul 6 gennaio. Ora sarà il giudice distrettuale Carl Nichols a stabilire l’entità della pena che sulla carta varia da 30 giorni fino a un anno di carcere. La sentenza è attesa per il 21 ottobre.

Bannon è stato uno dei pochi interlocutori di Trump nelle settimane precedenti il 6 gennaio. Tutte le figure istituzionali, invece, erano tagliate fuori. Nell’audizione di giovedì sera un consigliere che ha chiesto di non essere identificato ha riferito come Trump si rifiutasse di rispondere alle telefonate in arrivo dal Pentagono. Poi l’avvocato della Casa Bianca, Pat Cipollone, ha confermato che il presidente non interpellò nessuno dei ministri responsabili dell’ordine pubblico: né il titolare della Difesa, né quello della Giustizia o della Sicurezza interna. «Non vuole che si faccia nulla», è l’affermazione che rimbalza in quei 187 minuti tra il capo dello Staff, Mark Meadows, il dipartimento legale di Cipollone, il Consiglio di Sicurezza nazionale, l’ufficio stampa.

A un certo punto Trump telefonò al suo avvocato personale Rudy Giuliani, il complice numero uno in tutta questa vicenda tanto grave quanto sgangherata.

Un capitolo a parte merita la figlia consigliera, Ivanka Trump. Anche la seduta dell’altro ieri ha comprovato i suoi sforzi per smuovere il padre. Anche lei rimbalzata. Dopo ore di tentativi è riuscita solo a far inserire nel tweet «della distensione», l’invito rivolto ai supporter: «Siate pacifici». Suo marito Jared Kushner ha raccontato che era sotto la doccia, quando ricevette sul cellulare l’appello del leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy: «Mi chiedeva di fare qualcosa, era chiaramente impaurito».

Il finale è inedito. Il 7 gennaio Trump registra il video riparatore. Legge il testo preparato dai consiglieri, ma si imbizzarrisce almeno un paio di volte. La prima per alleggerire le parole di condanna verso i responsabili dei tumulti. La seconda per negare la sconfitta: «No, non voglio dire che le elezioni sono finite». Ora la Commissione preparerà un rapporto preliminare. Poi a settembre riprenderanno le udienze.

Trump sarà chiamato a rispondere dalla magistratura ordinaria? Il diretto interessato attacca sul suo Social «Truth»: «Questa è una Commissione che non vale una cicca. È corrotta e dice solo menzogne». Ma la risposta spetta a Merrick Garland, il ministro della Giustizia dell’Amministrazione Biden. Ci sta girando intorno da più di un anno.

22 luglio 2022 (modifica il 22 luglio 2022 | 23:37)

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, 2022-07-22 21:39:00, L’ex stratega della Casa Bianca si era rifiutato di rispondere alla convocazione della Commissione sul 6 gennaio. È stato uno dei pochi interlocutori di Trump nelle settimane precedenti il 6 gennaio, Giuseppe Sarcina

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