Sergio Castellitto: «Ho interpretato Dalla Chiesa per mio figlio adolescente»

Spread the love

di Walter Veltroni

L’attore sarà il generale che fu partigiano, lottò contro il terrorismo e venne ucciso con la moglie dalla mafia a Palermo nel 1982: «Ho sempre avuto l’impressione che fosse sopportato a stento dalla classe politica. Lui fu un eroe ingenuo e non si mise al riparo»

Chi era Carlo Alberto Dalla Chiesa? Cosa ha rappresentato nella storia italiana? Provate a porre questa domanda per strada o davanti a una scuola, e ascolterete le risposte più bizzarre. Mi capitò, quando girai il film su Berlinguer, di compiere la stessa operazione di fronte a licei o università e di sentir identificare il segretario del Pci con un generale francese della seconda guerra mondiale o con un noto scrittore russo, autore di Guerra e pace. Si può irridere i giovani senza memoria, (ma a dir castronerie c’erano anche insegnanti) e così assolversi. Ma il problema è più profondo e chiama in causa la società presentista e smemorata nella quale viviamo. Ha detto su la Lettura Edgar Morin, dopo aver elencato i fattori strutturali di rischio di quest’epoca: «Stiamo vivendo, soprattutto, una crisi più insidiosa, invisibile e radicale: la crisi del pensiero». Il pensiero è senza limiti, senza steccati. Invece oggi viene irrisa la storia come inutile chincaglieria e demonizzato il futuro, ridotto a un misterioso e inquietante buco nero.

Un uomo diverso

Sergio Castellitto, che ha interpretato il ruolo di Carlo Alberto Dalla Chiesa in una fiction televisiva che andrà in onda in quattro serate sulla prima rete Rai, dice: «Chi era? Me lo ha chiesto anche mio figlio Cesare. Gli ho risposto così: era un servitore dello Stato. Come Falcone, Borsellino, Chinnici, come tanti poliziotti, carabinieri, magistrati uccisi dai poteri criminali. Dalla Chiesa apparteneva alla schiera degli uomini animati da un forte senso del dovere e da una discrezione che sembra una bestemmia, in questi tempi smodati. Le persone come lui sono motori che non si costruiscono più. Non facevano battute e credo che oggi non userebbero Twitter o Instagram. Il loro linguaggio era il silenzio, lo studio, il lavoro. Ha combattuto il banditismo, il terrorismo, la mafia. Dove c’era l’illegalità arrivava lui per contrastarla. Un Avenger della giustizia, se dovessi spiegarlo a un adolescente di oggi».

«SCELSE GLI UOMINI DELLA SUA SQUADRA UNO A UNO. CERCAVA PERSONE ANCHE SEMPLICISSIME MA CHE AVESSERO UNA LUCE DENTRO»

La figlia Rita e l’uomo dietro la divisa

Gli chiedo come si è preparato per un personaggio così schivo e così impegnativo: «Ho consultato uno sterminato materiale che lo riguardava ma poi mi sono detto che dovevo dimenticare tutto. Ho parlato a lungo con Rita, la figlia, donna libera intellettualmente e innamorata del padre. Lei mi ha raccontato particolari che me lo hanno reso ancora più vicino: dietro quella divisa c’era un uomo spiritoso, allegro, che amava Orietta Berti e Mina. Tutti elementi che ho incorporato. Ma poi faccio sempre così: assumo ogni cosa che mi possa servire a dare credibilità alla mia interpretazione, ma poi me ne distacco. Non devo fare un’imitazione, devo restituire una identità e racchiuderla in una visione. Correttezza, quasi etica, richiede che lo spettatore sia messo costantemente in condizione di leggere la natura di reinterpretazione di un personaggio. Che io cammini o no come lui non importa. Ciò che conta è che arrivi la sostanza di una vita, di un carattere, di un modo di essere».

«Tutta la vita sotto sequestro»

«Prendi la sua lotta al terrorismo. Penso che l’Italia gli debba molto: se quella striscia di sangue che ha paralizzato le vite della nostra generazione si è interrotta, molto è stato merito suo. Ha usato la forza e l’intelligenza, per sconfiggere chi uccideva in nome dell’ultima lotta ideologica del Novecento. Ma non gli mancava l’umanità. Penso al suo rapporto con Patrizio Peci, al dolore provato per la barbara esecuzione del fratello Roberto. A Patrizio disse: “Ho passato l’intera vita in conflitto. Ho fatto la Seconda guerra mondiale, ho contrastato il banditismo, la mafia e poi voi. Non ho trascorso un solo giorno di pace, ho vissuto anche io tutta la vita sotto sequestro”».

«Ho sempre avuto l’impressione che Dalla Chiesa fosse al massimo sopportato da buona parte del sistema politico del tempo. Che alcuni dei governanti di allora sapessero che ci si doveva affidare a lui ma avessero timore proprio del suo rispetto per lo Stato che era, in primo luogo, senso di responsabilità e autonomia. Quando chiedeva poteri speciali nelle sue funzioni non lo faceva per vanagloria, ma perché sapeva che era quella la condizione per fronteggiare l’onnipresenza della politica e la sua tendenza a condizionare, frenare, deviare».

«QUANDO VIENE UCCISO LA SUA CASSAFORTE, IN PREFETTURA, VIENE TROVATA APERTA E VUOTA. MAI NESSUNO HA SPIEGATO PERCHÉ E COSA CUSTODISSE. UNO DEI TANTI MISTERI DELLA STORIA NAZIONALE»

«Il conflitto con Andreotti e con la sua corrente in Sicilia parlava di questo. Dalla Chiesa è stato persino ingenuo nel non difendersi, nel non mettersi a riparo. Lo odiavano tutti i criminali e anche qualcuno che avrebbe dovuto stare dalla sua parte». Quando il generale, diventato prefetto di Palermo, viene ucciso con la moglie Emanuela Setti Carraro, la sua cassaforte, in prefettura, viene trovata aperta e vuota. Mai nessuno ha spiegato perché e cosa custodisse. Uno dei tanti misteri della travagliata storia nazionale. La mafia è stata un cancro della nostra storia e lo è ancora. Ma sembra dimenticata, nessuno ne parla più, anche in questa stramba campagna elettorale. Oggi la mafia è laureata, è a Ginevra non solo a Corleone. E per sconfiggerla davvero ci vorrebbe la sofisticata strategia che Dalla Chiesa mise in campo contro la violenza armata.

Una bella Italia

«Dalla Chiesa scelse i componenti del suo nucleo antiterrorismo a uno a uno, come i magnifici sette. Si andò a cercare semplici brigadieri ma che avessero una luce dentro, una motivazione profonda, qualcosa che saldava il dovere professionale con la coscienza civile. Il film, io lo chiamo così, racconta proprio questo momento, questo lavoro. Racconta come un manipolo di persone, guidate sapientemente, riuscì a fronteggiare un esercito ben organizzato, quello delle Br, che stava insanguinando l’Italia. Il terrorismo, come ogni pagina scura di questo Paese, è stato messo sotto il tappeto. Perché è difficile ammettere che centinaia di ragazzi, di destra e di sinistra, abbiano accettato di sparare, di uccidere, di vivere in clandestinità. E che forse migliaia di cittadini, di questo si trattava, ne abbiano coperto le azioni. Io appartengo a quella generazione e ho visto molti miei coetanei fare quella scelta. Fino a diventare carnefici o vittime. Il teatro mi ha salvato da quell’ondata ideologica. La mia militanza era artistica, non politica. Per me il teatro era un gesto rivoluzionario perché modificava la coscienza. Il Riccardo III di Shakespeare conteneva più politica di tanti cortei».

«Gli direi “Ci scusi” e poi “Grazie”»

«Di quel tempo complicato mi manca la materia dei sogni, il fare le cose insieme, l’odore delle persone. Mi sembra che viviamo tutti separati. In una finzione di relazione onnipresente ma senza la bellezza del fare insieme. Quella che raccontiamo, con la sceneggiatrice Monica Zapelli e il regista Lucio Pellegrini, è una storia ambientata a cavallo degli Anni 70 e 80. Un tempo pieno di problemi, di ansie, di conflitti, di schifezze morali e politiche. Però era anche un’Italia meravigliosa, costruita da gente per bene, che faticava nei campi, nelle catene di montaggio, nelle scuole. L’Italia di Berlinguer e Moro, di sindacalisti forti e responsabili. Un’Italia che aveva fiducia nel progresso e che per questo ha resistito ai suoi stessi mali. Da qualche tempo mi sembra che domini ovunque un sentimento di invidia, sul quale forze politiche di nuova costruzione hanno edificato il loro effimero consenso. Io in quegli anni non navigavo certo nell’oro. Ma per chi ce l’aveva fatta non provavo nessuna invidia. Provavo curiosità, volevo capire che strade avessero percorso, che studi avessero fatto, da dove nascesse il loro talento. Volevo capire per migliorarmi, non augurare il male a chi era stato più bravo di me». Gli chiedo cosa direbbe a Dalla Chiesa se potesse incontrarlo. «Gli direi “Ci scusi” e poi “Grazie”».

9 settembre 2022 (modifica il 9 settembre 2022 | 07:44)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-09-10 05:11:00, L’attore sarà il generale che fu partigiano, lottò contro il terrorismo e venne ucciso con la moglie dalla mafia a Palermo nel 1982: «Ho sempre avuto l’impressione che fosse sopportato a stento dalla classe politica. Lui fu un eroe ingenuo e non si mise al riparo», Walter Veltroni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.