Roma, storie di pronto soccorso: «Al Sant’Eugenio mi hanno fatto la visita alla gola con la torcia del telefonino»

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di Fabrizio Peronaci

Dopo il caso della signora ultraottantenne lasciata 11 ore in attesa al Santo Spirito, boom di segnalazioni dagli ospedali della capitale. Mancano personale e attrezzature banali come un otoscopio. Chi chiama i carabinieri, chi fugge in clinica…

Lo si sapeva, lo si intuiva dal numero crescente di segnalazioni: il caso della signora ultraottantenne, una professoressa di Lettere in pensione, lasciata 11 ore su una barella in attesa di una visita al pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito, nel centro di Roma, a pochi passi dalla basilica di San Pietro, non è isolato. Da tempo, in coincidenza con l’emergenza Covid, l’assistenza e la cura di tutte le patologie extra-coronavirus vacilla, e non soltanto nella capitale. Ma, a giudicare dalle testimonianze dei malati e dei loro parenti, unici e veri diretti interessati, l’impressione è che il livello di guardia sia stato superato.

È un «alert» molto serio alle autorità sanitarie, ai manager, ai politici responsabili della supervisione del sistema, quello che proviene dalle decine di racconti pervenuti in queste ore al Corriere. Personale medico e infermieristico insufficiente, strutture degradate, ritardi inaccettabili nella diagnostica, mancanza di apparecchiature basilari come – addirittura – un otoscopio da bocca per effettuare una visita alla gola di una paziente.

La struttura al centro delle maggiori critiche è un ospedale storico di Roma, il Sant’Eugenio, al quartiere Eur. Mirella Serpa, residente in zona, è indignata: «Consiglio di farsi un giro… Mio marito, malato serio di colangite sclerosante, al Sant‘Eugenio è stato per cinque giorni consecutivi su una barella, con febbre e vomito. Temo che nel Lazio siano quasi tutti così…» Cintia Celea, 59 anni, dipendente comunale, ricorda bene quanto capitò a lei: «Al Sant’Eugenio mi hanno lasciata urlare e piangere per i dolori per ben 3 ore e mezza… Mi ero lesionata nervi spinali, ma l’ho scoperto dopo anni con una risonanza che allora non vollero farmi…»

Ritardi, superficialità, omissioni: queste le accuse ricorrenti. L’esperienza di Rossella Stomaci, casalinga, pure lei residente a Roma sud, è più indietro nel tempo ma indelebile: «Mia madre fu ricoverata al Sant’Eugenio otto anni fa: l’hanno tenuta per otto giorni in una stanza vicino al pronto soccorso, e per visitarla ci hanno messo diverse ore. Quando sono arrivata si sentiva cattivo odore e ho pensato: ma questa è l’Italia? Peggio del terzo mondo. Mai più… Mia madre poi fu messa in un reparto, ma morì tempo dopo».

Stesso esito, purtroppo, per Maurizio Gai: la storia è di queste ore. «Sant’Eugenio: paziente di 94 anni ricoverata per anemia e toelettatura protesi dell’anca. Tutto risolto, per cui dimessa. Sì, ma con polmonite bilaterale multifocale. Riportata in ospedale nello spazio delle 24 ore, non accettata dal reparto da cui era stata dimessa. Tre giorni in astanteria in attesa di un posto letto. Venerdì trovato posto in medicina d’urgenza (dopo minaccia di rivolgermi alle forze dell’ordine) e martedì decesso. Era mia madre…»

Avanti, tra rabbia e dolore. Una vicenda per molti versi incredibile, sempre ambientata al Sant’Eugenio, è quella raccontata da una docente universitaria dell’università La Sapienza: «Il 13 marzo di quest’anno sono stata al pronto soccorso del Sant’Eugenio per un edema oculare derivante da allergia a ibuprofene e sono rimasta allucinata da quel che ho visto», è la premessa. La professoressa cinquantenne, specializzata in materie economiche, prosegue: «Per fortuna avevo preso antistaminico e cortisone a casa. La dottoressa di turno mi ha visitato la gola con la lucetta del cellulare dell’infermiere di turno, che aveva nel frattempo toccato tutti i pazienti del reparto». E non è finita: «Due settimane dopo, a causa di un edema alla gola e alle labbra per allergia a colluttorio, ho cambiato ospedale e sono andata al pronto soccorso del Policlinico Umberto I, dove sono entrata alle 17 e uscita alle 5 del mattino. Mi hanno curata egregiamente, ma era super affollato e con un solo medico di turno, il quale, poveraccio visitava accuratamente tutti »

Come si vede, il discorso torna: come nel caso scandaloso del Santo Spirito (per il quale la Asl Roma 1 ha chiesto scusa ), medici e infermieri lavorano con dedizione, persino allo stremo delle forze, ma di fatto si trovano nell’impossibilità di garantire servizi all’altezza, per carenza di organici e apparecchiature. «Trovo allucinante tutto questo – conclude la docente universitaria – Bisognerebbe fare qualcosa, i medici sono stanchi dei ritmi forsennati, e noi cittadini anche, con motivazioni serie…»

Al Santo Spirito d’altronde i precedenti non mancano. Orietta Anniballi, 58 anni, abitante in zona Vigne Nuove, ultimo lavoro addetta di mense e oggi disoccupata, è pessimista: «Una vergogna: tre anni fa ho avuto esperienza del pronto soccorso del Santo Spirito con mia madre, pressione oltre i 200 e ho dovuto protestare vivacemente per fargliela misurare, dopo ore di attesa. Non c’è più dignità per nessuno, valiamo meno di niente secondo i criteri di oggi. Sembra non importi nulla degli anziani… No, non mi riconosco più in questo paese…» Loredana Pronio, ex assistente parlamentare e animalista, è passata in condizioni molto critiche dal pronto soccorso dell’Umberto I e ne conserva un ricordo drammatico. Resta da sperare che nel frattempo la situazione sia migliorata: «A me è toccato il Policlinico 2009! Ci sono arrivata una tarda serata, in uno stato di coma che nessuno si è mai spiegato. Ho passato senza coscienza una notte e la mattina, dopo tutti gli esami possibili e immaginabili… Sono andata via verso le 13 sulle mie gambe… In camicia da notte come ero entrata…» Su un altro policlinico, il Gemelli, testimonia la signora Carla Landi. «È successo 5 anni fa. Mia mamma è stata sulle barelle del pronto soccorso per 2 notti e 2 giorni… Col femore rotto».

Storie tristi, dure. Storie quotidiane da ascoltare una ad una. Perché sono le esperienze dei malati, non altro, a rappresentare una bussola per chi governa la sanità, in modo da poter compiere scelte giuste e tempestive. Il racconto di Maria Rossi, 68 anni, romana, ci porta all’estrema periferia est della capitale, all’ ospedale ex Figlie di San Camillo. «Era giovedì della scorsa settimana: una mia amica viene ricoverata per l’operazione alla cistifellea. Poi è dolorante, sofferente. Viene rioperata. Finisce in terapia intensiva. Muore». Maria Pia Rainone, invece, sua mamma l’aveva accompagnata al Pertini. «Mia madre, 93 anni, prima viene ricoverata con scompenso cardiaco e poi spostata in clinica, e curata senza tenere conto di un’occlusione». Quadro simile, dunque, a quello della paziente in attesa 11 ore… «La patologia intestinale di mia madre però viene considerata poco importante, tanto che è stata dimessa sotto Pasqua…» Nuovo aggravamento e la quasi centenaria «viene riportata in pronto soccorso al Pertini, curata e poi per fortuna spostata all’Israelitico, in geriatria, dove con grande impegno l’hanno svuotata e dimessa venerdì». Sollievo, finalmente: «Ora mamma è a casa e si sta riprendendo…» (fperonaci@rcs.it)

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26 maggio 2022 (modifica il 26 maggio 2022 | 22:05)

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, 2022-05-26 20:05:00, Dopo il caso della signora ultraottantenne lasciata 11 ore in attesa al Santo Spirito, boom di segnalazioni dagli ospedali della capitale. Mancano personale e attrezzature banali come un otoscopio. Chi chiama i carabinieri, chi fugge in clinica…, Fabrizio Peronaci

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