Pink, dallo smart working alle grandi dimissioni: cosa vogliono le persone dal lavoro

Pink, dallo smart working alle grandi dimissioni: cosa vogliono le persone dal lavoro

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Pink, dallo smart working alle grandi dimissioni: cosa vogliono le persone dal lavoro Lo scrittore americano Daniel Pink

In questo momento di incertezza economica e ansia geopolitica, «è impossibile fare previsioni sul futuro, occorre sperimentare per conoscere, anche nell’organizzazione del lavoro», davanti a un fenomeno come le Grandi Dimissioni e la resistenza di chi non vuole tornare in ufficio, dopo aver lavorato per oltre due anni da casa, afferma Daniel Pink, 58 anni, uno dei business thinker più influenti e autore del bestseller mondiale «Drive». Chief speechwriter dell’ex vice presidente di Bill Clinton, Al Gore, e collaboratore del segretario del Lavoro Usa, Robert Reich, Pink ha approfondito le ricerche della scienza comportamentale, per individuare i momenti chiave da sfruttare per migliorare le performance dei team. «Che cosa vogliono le persone dal lavoro? Più autonomia. La soddisfazione deriva da un lavoro stimolante, complesso ma con potere decisionale, dove si possa scegliere come fare le cose», afferma Pink, tra gli ospiti dell’undicesima edizione del Leadership Forum, organizzato a Milano da Performance Strategies, quest’anno intitolato «Turning Point», punto di svolta.

Una delle eredità della pandemia è il fenomeno delle Grandi Dimissioni. Come nasce e perché?

«Penso che le Grandi Dimissioni siano il prodotto di molteplici forze: una di queste è la pandemia stessa. Le persone hanno avuto un paio d’anni per riflettere, anche sul lavoro e a molti non piaceva quello che facevano. Si sono resi conto che non venivano trattati in modo equo, che forse non stavano crescendo, che forse non stavano facendo il loro lavoro al meglio. Inoltre, durante la pandemia le persone hanno fatto i conti con la morte, hanno riflettuto a fondo sulla loro vita e anche sul loro posto di lavoro. La seconda ragione è ciclica: il mercato del lavoro si è ristretto e i lavoratori hanno guadagnato un po’ più di potere. La grande tendenza in atto nel mercato del lavoro in tutto il mondo è che oggi le persone di talento hanno meno bisogno delle organizzazioni di quanto le organizzazioni abbiano bisogno dei talenti. Questo è un grande cambiamento. Ci sono un sacco di persone con competenze richieste e sono loro che decidono sul mercato del lavoro. Non tutti, ma una parte consistente. Piano piano il mercato del lavoro tornerà ad assomigliare al passato, ma questa tendenza profonda continuerà, perché le persone vogliono di più dal loro lavoro, con la differenza che le persone di talento hanno meno bisogno delle organizzazioni di quanto le organizzazioni abbiano bisogno di persone di talento».

Le Grandi Dimissioni non sono un fenomeno solo americano, ma è arrivato anche in Europa. Eppure, le condizioni e le protezioni dei lavoratori sono molto diverse.

«Gli Stati Uniti hanno una regolamentazione del lavoro molto meno rigida, il vantaggio è che il mercato del lavoro è molto fluido, i lavoratori possono spostarsi facilmente da un impiego all’altro e l’incontro tra domanda e offerta è più efficiente. Ma abbiamo anche più disuguaglianze e meno tutele per i lavoratori. L’aspetto interessante è che se anche in Europa è in corso il fenomeno delle Grandi Dimissioni, questo ci dice qualcosa di profondamente importante sulla natura del lavoro. Che cosa cercano le persone? Un senso di controllo sul proprio tempo, sul proprio compito e su ciò che fanno, quando lo fanno, come lo fanno. Cercano la possibilità di imparare e crescere, cercano un purpose, uno scopo. E quando queste cose mancano e il mercato del lavoro si irrigidisce o le persone iniziano a pensare più profondamente al senso della loro vita, allora si licenziano … Ovviamente è più facile spostarsi negli Stati Uniti che in Europa, ma le ragioni dietro queste scelte sono le stesse. Una cosa interessante che si vede negli Stati Uniti in questo momento, in risposta alla disuguaglianza, è la rinascita del sindacato negli Stati Uniti, che è stato inattivo per trenta, quaranta anni. C’è più attività delle organizzazioni del lavoro oggi in America di quante ne ho vista in tutta la mia vita. E’ un fenomeno interessante collegato alla disuguaglianza. Il mondo è complicato: da un lato abbiamo tutte le virtù di un mercato aperto, dove le persone sono in grado di muoversi e hanno molta libertà, specialmente nella parte alta del mercato del lavoro, ma nella parte bassa del mercato abbiamo persone che non sono trattate particolarmente bene, non sono pagate abbastanza e che ora si ribellano».

Crede che il fenomeno della Grandi Dimissioni sia temporaneo e si ridimensionerà davanti alla recessione?

«Si e no. Credo che in parte sia temporaneo, come ho detto prima. C’è una tendenza ciclica di disoccupazione secolare nel mercato del lavoro, ma c’è anche una seconda tendenza che consiste nel fatto che le persone ai vertici del mercato del lavoro hanno un enorme potere, perché le organizzazioni più grandi hanno bisogno di loro molto più di quanto loro abbiano bisogno delle organizzazioni. Quello che sta accadendo in questo momento è ciò che io chiamo la “grande selezione”: stiamo cercando di risolvere alcune grandi questioni sul lavoro. Sono molte le domande che emergono: che tipo di lavoro vorremmo fare insieme e che tipo di lavoro dovremmo fare da soli? Quale tipo di lavoro dovrebbe essere svolto in modo sincrono e quale in modo non sincrono? Come si può gestire la propria vita personale senza distruggerla? E a cosa serve l’ufficio in un mondo in cui, anche in Italia, le persone possono lavorare a casa. Penso che nei prossimi 12 mesi daremo risposta a questo tipo di questioni».

Molti Ceo stanno richiamando i lavoratori in presenza. Ma i lavoratori non vogliono rinunciare alla flessibilità. Che cosa pensa dello smart working? Quale è il modello vincente di organizzazione del lavoro?

«Le aziende che cercano di far tornare le persone a tempo pieno in ufficio commettono un errore colossale. Ho iniziato a scrivere sul lavoro da casa quasi 20 anni fa e mi dicevano che ero pazzo, che le persone dovevano essere monitorate, sorvegliate. Poi, nel marzo del 2020, abbiamo avuto un enorme esperimento di massa a livello internazionale in cui centinaia di milioni di persone sono riusciti a imparare in pochi giorni a lavorare a casa e lo hanno fatto per 2 anni. È una cosa importante e non si può tornare indietro. Anche perché ai lavoratori piace: In una ricerca condotta a Stanford è emerso che i lavoratori in Italia rinuncerebbero al 5% del loro stipendio pur di avere 2 o 3 giorni di lavoro da casa. Questo fa parte di questa “grande selezione”. Non credo in un lavoro in cui le persone semplicemente non vadano in ufficio, ma nemmeno che torneremo a un mondo in cui i colletti bianchi stanno seduti nei cubicoli dieci ore al giorno per cinque giorni alla settimana davanti al loro pc. Il futuro è ibrido, anzi in futuro non lo chiameremo neppure ibrido, ma solo lavoro».

Viviamo in un periodo di grande incertezza economica e tensioni geopolitiche: quali sono le strategie per le aziende per guardare al futuro con più ottimismo?

«La pandemia ci ha ricordato la profonda interconnessione delle nostre economie. Quindi, se succede qualcosa di folle in Ucraina, i dipendenti e i proprietari di case pagheranno prezzi più alti per l’energia. Se c’è un attacco di terrorismo informatico, le persone in tutto il mondo saranno attaccate immediatamente. Se c’è un virus nel mercato di Wuhan, in Cina, si diffonde a Washington. Dobbiamo quindi renderci conto che le decisioni che vengono prese riguardano una cerchia più ampia di persone rispetto al passato. Prendere una decisione significa influenzare le persone che lavorano con te, i clienti, i fornitori, gli azionisti e questo è il motivo per cui è così difficile essere un amministratore delegato in questo momento, deve operare in qualche modo come un capo di Stato non eletto».

Il suo ultimo libro si intitola «The Power of Regret», cioè Il potere del rimpianto. Di che si tratta?

«Si tratta di … rimpianto, la nostra emozione più incompresa, che è l’orribile sensazione che proviamo quando guardiamo alla nostra vita e pensiamo che avremmo dovuto fare cose diverse o in modo diverso. L’argomento principale del libro è che non abbiamo preso abbastanza sul serio questo sentimento. Troppo spesso siamo caduti nella trappola di non avere rimpianti, cosa particolarmente comune in America, dove la gente dice: non ho rimpianti, guardo sempre avanti, sono sempre positivo, non sono mai negativo. E questo è un modo profondamente sbagliato di guardare alla nostra vita. Una ricerca lunga 16 anni dimostra che il rimpianto è una delle emozioni più comuni tra gli esseri umani di tutto il mondo e questo ci rende umani. Ma i rimpianti ci rendono anche migliori. Dobbiamo chiederci il perché di questa emozione e il motivo è che non affrontiamo il rimpianto in modo adeguato. Alcuni di noi ignorano i loro rimpianti, altri sono bloccati dai loro rimpianti, entrambi gli atteggiamenti sono sbagliati. La ricerca che ho citato prima afferma che se ci confrontiamo costantemente con i nostri rimpianti, questo ci aiuta a prendere decisioni migliori, ci aiuta a elaborare strategie migliori, a risolvere miglio i problemi, a diventare migliori negoziatori. Quindi abbiamo bisogno di un nuovo approccio verso i rimpianti. Un’altra cosa che ho iniziato con questo libro è un sito web (www.worldregretsurvey.com), in cui ho chiesto alle persone di tutto il mondo di inviare i loro rimpianti e ho un database di 22.000 rimpianti da persone di 109 Paesi (170 dall’Italia). E ciò che è emerso è che le persone sembrano avere lo stesso nucleo di 4 rimpianti. Il primo è quello che io chiamo “foundation regret”, ovvero piccole decisioni che le persone hanno preso presto nella vita e che nel tempo hanno avuto conseguenze negative nella mia vita: non ho fatto abbastanza soldi e ora sono al verde; non ho mangiato bene o non ho fatto esercizio fisico. La seconda grande categoria è quella di chi ha avuto un’opportunità nella vita e non l’ha colta, e se ne pente per tutta la vita: non aver accettato un invito galante, non aver viaggiato, sia in Italia che negli Usa non aver studiato all’estero o frequentato l’università, non aver lasciato un posto di lavoro terribile e mettersi in proprio… Il terzo tipo sono i rimpianti morali, le persone rimpiangono di aver fatto la cosa sbagliata: aver imbrogliato, aver rubato, aver bullizzato. Infine, ci sono i rimpianti delle connessioni, che non riguarda solo le relazioni affettive, ma ogni tipo di legame: si rinuncia a stabilire un legame interrotto per imbarazzo o perché si pensa che all’altro non interessi. Tutto ciò che tutti questi 4 gruppi di rimpianti ci dicono è un’immagine rovesciata di quello che le persone vogliono dalla vita, ci dicono che le persone vogliono un inizio stabile, un’opportunità di crescere e imparare, aspirano a fare la cosa giusta ed essere buone e vogliono amore. Perciò queste rimpianti incompresi sono segnali di come potremmo costruire una vita migliore e, in termini di aziende, e offrono ai top manager indicazioni su come impostare un’organizzazione migliore».

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, 2022-11-01 18:02:00, Lo scrittore americano: «Oggi le persone di talento hanno meno bisogno hanno meno bisogno delle organizzazioni di quanto le organizzazioni abbiano bisogno dei talenti». «La soddisfazione deriva da un lavoro stimolante, complesso ma con potere decisionale, dove si possa scegliere come fare le cose», Giuliana Ferraino

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