Pechino ci rende schiavi con il commercio  (e forse incapaci di difendere Taiwan)

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di Federico Rampini

Il «made in China» tiene sotto scacco Unione europea e Stati Uniti. Il contesto economico complica l’applicazione delle sanzioni alla potenza asiatica

La vera arma segreta di Xi Jinping è in realtà sotto gli occhi di tutti, ben visibile alla luce del sole: si chiama “made in China”. Più forte che mai, la penetrazione dei prodotti cinesi sui nostri mercati ha retto a tutte le prove: la pandemia, la guerra in Ucraina, le tensioni geopolitiche della seconda guerra fredda. Questo costringe a riflettere sul nodo di Taiwan . Gli occidentali si chiedono se la Cina abbia davvero interesse a rischiare i suoi enormi interessi economici globali, la sua presenza dominante sui mercati di sbocco dell’Occidente, avventurandosi in un’aggressione militare contro Taiwan che inevitabilmente avrebbe ripercussioni: sia che l’America intervenga militarmente in difesa di Taipei oppure no, delle sanzioni economiche contro la Cina sarebbero un prezzo da pagare per l’invasione dell’isola. Il punto di vista di Xi Jinping però può essere – come sempre – diverso dal nostro. Il presidente cinese ha buone ragioni di pensare che l’Occidente è incapace di fare a meno della Cina.

Gli ultimi dati sul commercio estero sembrano fatti per confortare questa valutazione. Nel mese di luglio le esportazioni cinesi verso il resto del mondo sono salite a un valore di 333 miliardi di dollari, in aumento del 18% rispetto al luglio 2021. Se guardiamo ai suoi principali mercati di sbocco occidentali, cioè l’Unione europea (secondo partner della Cina) e gli Stati Uniti (primo partner), l’aumento è stato rispettivamente del 23% e dell’11%. Molto più dell’inflazione. E questo boom delle vendite cinesi ha coinciso con un rallentamento della crescita mondiale, con una fase in cui l’America era in una sorta di semi-recessione, tutte cose che avrebbero dovuto penalizzare il “made in China” anziché arricchirlo. Questi risultati eccellenti sono tanto più significativi in quanto sono avvenuti mentre la Cina continuava ad applicare la sua politica “zero Covid” e imponeva lockdown severi in diverse città, incluse metropoli industriali e portuali che sono dei centri di esportazione. Xi Jinping sembra non pagare alcun prezzo per la rigidità delle sue misure anti-pandemia, almeno se guardiamo al boom di esportazioni cinesi sui nostri mercati. Com’è possibile? Una chiave di spiegazione possiamo trovarla ricordando che in molte fabbriche gli operai sono stati costretti ad alloggiare in dormitori presso gli stabilimenti: così le precauzioni sanitarie, a cominciare dal blocco della mobilità, hanno penalizzato poco la produzione, la logistica, i trasporti di merci.

Il risultato è che la Cina continua ad accumulare attivi commerciali sempre più elevati con il resto del mondo: a luglio il saldo positivo tra esportazioni e importazioni ha sfondato la soglia dei cento miliardi di dollari. Il mondo è avido di “made in China” più che mai, l’Occidente in particolare non riesce a farne a meno. Questo dato è in contraddizione con l’ambizione proclamata di ridurre la nostra dipendenza, che negli ultimi anni è diventata sempre più forte. Prima abbiamo avuto l’offensiva di Donald Trump con i dazi, mantenuti in vigore da Joe Biden, per ridurre lo squilibrio commerciale che favorisce Pechino. Poi la pandemia ha reso il mondo intero più consapevole di quanto sia pericoloso dipendere da fabbriche troppo lontane (spesso sul suolo cinese) per prodotti essenziali. Anche l’Unione europea si è convinta – su pressioni americane – che non è saggio affidarsi al “made in China” per infrastrutture strategiche come la nuova telefonia 5G. Da anni si parla a vario titolo di un “decoupling” o divorzio dalla Cina ma la realtà va nella direzione opposta visto che compriamo sempre di più da una nazione che consideriamo ostile. Anche la Cina ha delle forme di dipendenza dall’Occidente, sia chiaro. La più importante riguarda i prodotti alimentari: Pechino importa derrate agricole in grande quantità dagli Stati Uniti.

Malgrado i piani del partito comunista per raggiungere un’autosufficienza alimentare, la Cina è ben lontana da quel traguardo e quindi non riuscirebbe a sfamarsi se gli agricoltori del Midwest non le vendessero soia e cereali. C’è anche una dipendenza cinese da alcune tecnologie avanzate, soprattutto americane, e non a caso Washington ha imposto diverse restrizioni su queste vendite che possono finire per aiutare il riarmo dell’Esercito popolare di liberazione. Nell’insieme però, guardando ai grandi numeri, e cioè al massiccio squilibrio tra quel che la Cina ci vende e quel che ci compra (espresso appunto dagli oltre cento miliardi di attivo in suo favore), la dipendenza maggiore è la nostra. Xi Jinping può pensare che, se non siamo riusciti a disintossicarci dalla nostra dipendenza dal “made in China” neppure sotto lo shock di una pandemia che ha generato penurie di ogni genere, non saremo in grado di adottare sanzioni economiche efficaci contro di lui neppure se invade Taiwan. Trent’anni di globalizzazione, e di delocalizzazioni verso la Cina, hanno smantellato tali e tanti settori industriali negli Stati Uniti e in Europa, che ci vorrebbero altri trent’anni per ricostruirli, e forse a costi insostenibili. Quindi siamo schiavi della Cina e quest’ultima può fare quel che vuole. Peggio: è Pechino che in caso di conflitto può usare la nostra dipendenza contro di noi. Questo è il tema della cosiddetta weaponization of trade: la trasformazione del commercio estero in arma.

Se la tensione diplomatica e strategica fra l’Occidente e la Cina dovesse salire al livello di guardia, portandoci sulla soglia di un vero conflitto, Pechino potrebbe negarci esportazioni di cui abbiamo un bisogno vitale. Questo non è uno scenario di fantapolitica. E’ già accaduto. Esattamente 12 anni fa. L’episodio fu una crisi sino-giapponese del 2010, che abbiamo dimenticato troppo presto. Invece dovremmo studiarcelo bene perché prefigurò l’uso punitivo che la Repubblica Popolare può fare della sua immensa potenza commerciale. In breve: in seguito a un incidente marittimo in acque contese tra la sovranità cinese e quella giapponese, al largo delle isole Senkaku (o Diaoyu secondo la toponomastica di Pechino), nel settembre 2010 il governo cinese bloccò le esportazioni di terre rare verso il Giappone. L’embargo mise in gravi difficoltà l’industria tecnologica di Tokyo perché le terre rare sono indispensabili per molti prodotti hi-tech. E la Cina possiede un quasi-monopolio mondiale su questi prodotti. Come la Cina sia riuscita a conquistarsi questa posizione dominante, e quali conseguenze abbia su di noi, ve lo racconterò nella prossima puntata di Oriente Occidente.

8 agosto 2022 (modifica il 8 agosto 2022 | 19:14)

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, 2022-08-09 05:10:00, Il «made in China» tiene sotto scacco Unione europea e Stati Uniti. Il contesto economico complica l’applicazione delle sanzioni alla potenza asiatica, Federico Rampini

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