Michel Houellebecq: solo la letteratura funziona

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di MICHEL HOUELLEBECQ

Laurea ad honorem per lo scrittore francese all’università Kore di Enna: «Abbiamo un bisogno fisico e intimo di altre di altre vite, e le troviamo nei libri». Ecco il suo intervento

Il fatto che si renda omaggio agli scrittori mi ha sempre stupito. Con una costanza incresciosa, gli autori migliori ci descrivono unanimemente un mondo senza speranza, devastato dall’infelicità, popolato da esseri umani il più delle volte mediocri e talvolta apertamente malvagi. In questo mondo, la felicità, la virtù e l’amore non trovano posto, non sono di casa; appaiono solo come piccole isole sorprendenti, quasi miracolose, in mezzo a un oceano di sofferenza, indifferenza e male.

Peggio ancora, gli autori stessi sono molto spesso maniaci del sesso, a volte pedofili, quasi sempre alcolisti, e talvolta consumatori di altre droghe ancora più pericolose; io, per esempio, ho da più di quarant’anni una forte dipendenza dal fumo. Se hanno bisogno di tutto questo per riuscire a sopportare l’esistenza, è perché la loro visione del mondo – della quale cercano, come meglio possono, di renderci partecipi – è una visione di desolazione e orrore.

Se le cose stanno così, è davvero legittimo ricompensare queste persone additandole all’ammirazione della gente?

Sì.

La letteratura non contribuisce per nulla all’aumento delle conoscenze, né al progresso morale dell’umanità; ma contribuisce in modo significativo al benessere umano, e lo fa in un modo che nessun’altra arte può rivendicare.

Sarò costretto a fare alcune osservazioni slegate tra loro, abbastanza indipendenti, per spiegarvi come sono arrivato a questa convinzione.

Come la maggior parte delle persone, ho scoperto il piacere prima di scoprire il dolore. Per i bambini, il piacere più comune è quello della gola; io non ero un bambino molto goloso. Un po’ più tardi ho scoperto la sessualità; in quel caso, invece, ho subito apprezzato molto. E poi, grossomodo, niente più, nessuna altra scoperta essenziale da segnalare.

Questo non ha nulla a che fare con il mio argomento, ma è comunque sorprendente: da migliaia di anni, l’ingegno umano si adopera per creare nuovi oggetti, nuovi prodotti; e da diversi secoli si avvale dell’industria e del capitalismo, cosa che ha notevolmente accelerato il processo. Ma non è mai riuscita a produrre nulla che si avvicini anche lontanamente, che sia all’altezza della sessualità donatavi dalla semplice esistenza del vostro corpo.

Eppure la sessualità, e ancor più la gola, interessano solo aree limitate del corpo umano; il dolore, invece, che in genere scopriamo più tardi e che impariamo a conoscere sempre meglio con l’avanzare dell’età, può colpire qualsiasi parte del corpo, la varietà delle sofferenze che sopportiamo è enorme; non c’è alcun dubbio, purtroppo: la sofferenza è più ricca e più varia del piacere.

Non credo nella paura della morte. Ricordo il ragionamento di Epicuro: quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte noi non siamo più; non incontreremo mai la morte, non abbiamo nulla in comune con lei. È un ragionamento semplice, convincente e corretto. La sola paura che possiamo avere è quella della morte degli altri, di quelli che ci sono cari. E la sola paura che abbiamo per noi stessi è la paura di soffrire.

La Rivoluzione francese è stata di una ferocia spaventosa; in certi periodi, le persone venivano letteralmente ghigliottinate in serie. La mia tesi è che, nella fila di quelli che «aspettavano il loro turno», come dice Pascal, nessuno aveva paura della morte, tanto più che quasi tutti all’epoca erano cattolici, convinti che avrebbero raggiunto immediatamente il Creatore. Tutti, però, avevano paura di quel momento terrificante, quel momento inedito in cui la lama avrebbe tagliato il collo fino a staccare la testa dal corpo.

Ebbene, nella fila di quelli che «aspettavano il loro turno», ce n’erano parecchi che leggevano; e tra quelli che leggevano, come attestano numerose testimonianze, alcuni, subito prima d’essere afferrati dagli aiutanti del boia ed essere trascinati al patibolo, misero il segnalibro alla pagina esatta dove erano rimasti – tutti i libri, a quel tempo, avevano un segnalibro.

Cosa significa, in simili circostanze, mettere il segnalibro? Può significare solo una cosa: mentre leggeva, il lettore era talmente assorto nel libro da aver completamente dimenticato che di lì a pochi minuti sarebbe stato decapitato.

Cos’altro, oltre a un buon romanzo, potrebbe produrre quest’effetto?

Niente.

Ci sono poche probabilità che nel prossimo futuro si verifichi una nuova Rivoluzione francese, ancora di meno delle probabilità che Jean-Luc Mélenchon perda le elezioni legislative di domenica prossima. Ma c’è un’altra situazione, anch’essa abbastanza angosciante, che si è molto ampliata nell’ultimo secolo, e che è destinata ad ampliarsi ulteriormente: quella degli esami medici. Un secolo fa avevamo solo la radiografia, i raggi X; ora abbiamo la TAC, la risonanza magnetica e altre cose ancora più recenti. Va benissimo, la medicina fa progressi. Ma le persone si trovano a dover affrontare, e sempre più spesso con l’avanzare dell’età, situazioni in cui attendono i risultati di esami da cui dipenderà la loro vita nei mesi, o addirittura negli anni successivi, e da cui potrebbe dipendere anche il tempo che resta loro da vivere.

Ci si trova lì, in sala d’attesa, forse per un’ora, forse per due, è normale, i medici hanno bisogno di tempo per interpretare i risultati.

Cosa si può fare in una situazione del genere? Esattamente la stessa cosa che facevano gli aristocratici condannati alla ghigliottina: leggere.

La musica non va bene, la musica coinvolge troppo il corpo, che si cerca per l’appunto di dimenticare. Le arti plastiche sono del tutto fuori luogo. E anche il cinema, perfino se si tratta di un thriller appassionante, non è sufficiente.

Ci vuole un libro, quindi; ma la cosa è ancor più difficile: non tutti i libri sono adatti. Né la filosofia né la poesia fanno al caso nostro. Un’opera teatrale, sì, al limite; ma la cosa migliore è avere sottomano un buon romanzo. In ogni caso, ci vuole necessariamente una narrazione, preferibilmente di fantasia, perché la biografia non raggiunge mai la potenza del romanzo.

Quando ero giovane, pensavo che la poesia fosse un genere letterario superiore a tutti gli altri; lo penso ancora, in una certa misura. È vero che l’associazione del suono e del significato, cui si aggiunge talvolta l’evocazione di certe immagini, dà risultati incommensurabili per ogni altra forma di produzione letteraria.

Quindi sì, continuo a pensare che la poesia sia quanto di più bello ci sia; ma mi sono convinto che il romanzo sia quanto di più necessario ci sia.

Nel mio ultimo romanzo, Annientare, il personaggio principale si trova alla fine in una situazione di estrema angoscia. Si ammala di cancro e per avere una chance di sopravvivenza deve sottoporsi a operazioni mutilanti, così mutilanti che i chirurghi esitano a proporgliele.

Ma è in un’altra circostanza legata alla cura, non particolarmente angosciante, solo fisicamente gravosa, che riscopre i benefici del romanzo. Deve fare delle flebo che durano da quattro a sei ore; e per dimenticare la flebo, per sottrarsi al desiderio continuo di strapparsela, la cosa migliore che trova da fare è leggere Conan Doyle.

Conan Doyle, vi ricordo di sfuggita, è un autore inglese che ha scritto a mio parere molte cose bellissime, ma la sua opera più famosa è senza dubbio il ciclo di racconti con Sherlock Holmes.

E qui, vorrei richiamare la vostra attenzione su un punto, perché la scelta di Conan Doyle potrebbe prestarsi a malintesi. Si potrebbe credere che la qualità più importante di un romanzo che debba aiutarci a evadere da una situazione mentalmente dolorosa – una flebo interminabile, l’attesa dei risultati di un esame – sia di essere quello che gli anglosassoni chiamano un page turner, e cioè un libro così accattivante che è difficilissimo interromperne la lettura.

Questa è una qualità importante, è vero, molto importante; ma non credo sia la più importante.

Vi invito a fare un semplice esperimento. Andate in spiaggia, in un bel pomeriggio d’estate. Immergetevi in un racconto di Sherlock Holmes. In meno di una pagina, se così ha deciso Conan Doyle, vi troverete catapultati a Londra, in una fredda e piovosa notte d’inverno, con la nebbia che invade le strade, o nell’appartamento di Baker Street, dove la stufa a carbone ronza sommessamente. Conan Doyle ci porta dove vuole, quando vuole, e ci fa entrare nell’interiorità dei personaggi che ha scelto. E lo fa, davvero, in meno di una pagina.

Ci si potrebbe aspettare da una Lectio magistralis che vi indichi come ci riesce, quali sono i dettagli rilevanti in grado di trasportare il lettore nel mondo che l’autore ha creato. Invece no. Non tutti gli scrittori hanno lo stesso metodo, per la semplice ragione che i loro universi percettivi sono diversi.

Ci si potrebbe aspettare, allora, che uno scrittore lo illustri a partire da una pagina dei propri libri, quel che si chiama un’esercitazione pratica. Invece no. Non si può, perché la riflessione cosciente non gioca alcun ruolo; si scrive si sente ciò che è importante nel momento in cui, ma lo si dimentica appena si passa a un’altra pagina. A volte lo si ritrova, quando ci si rilegge anni dopo, e ci si dice: però, questo o quel dettaglio non è male; ma è esattamente come se a scrivere il libro fosse stato qualcun altro.

È inutile quindi in genere, quando ci si domanda perché certe pagine siano della buona letteratura, chiedere spiegazioni all’autore, che non ne sa nulla. È molto meglio lasciare all’accademico il compito di individuare i dettagli importanti, le idiosincrasie, i metodi.

Sono un autore, certo, ma sono soprattutto, nella mia vita, un lettore; ho passato molto più tempo a leggere che a scrivere. E la mia vita di lettore, a differenza della mia vita di autore, mi ha portato ad alcune conclusioni definitive, che vi esporrò in questo breve intervento.

La ragione d’essere fondamentale della letteratura di finzione è che l’uomo ha in generale un cervello fin troppo complicato, fin troppo ricco per l’esistenza che è chiamato a condurre. La narrativa, per lui, non è solo un piacere, è un bisogno. Ha bisogno di altre vite, diverse dalla sua, semplicemente perché la sua non gli basta. Queste altre vite non devono per forza essere interessanti; possono essere perfettamente monotone. Possono essere piene di eventi di grande portata, o non prevederne alcuno. Non devono essere per forza esotiche; possono svolgersi cinque secoli fa, in un continente diverso, o nell’edificio accanto. L’unica cosa importante è che siano altre.

Può darsi che questo bisogno di altre vite sia politico, nel senso più ampio del termine; ma finora non sembra sia stata proposta alcuna soluzione politica valida. Ritengo più probabile che sia anzitutto intimo, fisico, emotivo; ma anche in questo caso non sembra sia emersa alcuna soluzione pertinente.

Non credo affatto che passi attraverso il virtuale, o il metaverso; queste sono solo un mucchio di chiacchiere.

La verità è che la letteratura resta, a tutt’oggi, l’unica cosa che funzioni.

Naturalmente, questo bisogno di altre vite raggiunge il suo picco massimo quando le circostanze della nostra vita diventano difficili e dolorose. Ecco perché, malgrado tutto ciò che ho detto all’inizio, forse è giustificato rendere omaggio ai romanzieri.

Vi ringrazio per la vostra attenzione.

(Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra)

15 giugno 2022 (modifica il 16 giugno 2022 | 21:43)

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, 2022-06-16 19:44:00, Laurea ad honorem per lo scrittore francese all’università Kore di Enna: «Abbiamo un bisogno fisico e intimo di altre di altre vite, e le troviamo nei libri». Ecco il suo intervento, MICHEL HOUELLEBECQ

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