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L’Ucraina e la scelta occidentale: il timone della vecchia Dc (che manca all’Italia)

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di Antonio PolitoIl ruolo che fu di De Gasperi e degli altri democristiani. Ora intorno a Pd e FdI potrebbero saldarsi due poli per garantire, nell’alternanza, la collocazione del Paese Ci vorrebbe un’altra Dc. Nell’assistere alla confusione ideale e talvolta anche morale, alle furbizie e ipocrisie del dibattito politico italiano intorno alla guerra all’Ucraina, viene da rivolgersi al passato. Perché la Democrazia Cristiana, che trent’anni fa, proprio in questi giorni, partecipava con il suo simbolo per l’ultima volta alle elezioni, ha commesso molti errori, e anche qualche reato, ma su un punto non ha mai sbagliato: è stata per quarant’anni la garante della collocazione dell’Italia in Occidente, dalla parte giusta della storia. L’adesione alla NatoRipercorrendo le vicende dell’adesione alla Nato nell’aprile del 1949 sembra di rileggere le vicende dell’oggi. Allora eravamo noi, piccola nazione sconfitta e distrutta dalla guerra, a chiedere di entrare nella nuova Alleanza, e negli Stati Uniti molti non si fidavano, tanto che la decisione finale fu rimessa al presidente Truman in persona. Ma anche allora il pericolo per l’Europa era l’espansionismo russo, a quel tempo rivestito peraltro della formidabile forza ideologica del comunismo. Non fu facile, nemmeno per la Dc. Esisteva in quel partito una componente di «terzaforzismo religioso», ben rappresentata dal gesuita padre Riccardo Lombardi. C’era il gruppo di Giovanni Gronchi, un cattolico così poco atlantista che quando fu eletto presidente nel 1955 l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce rifiutò di partecipare al ricevimento inaugurale, lamentando un malanno che fu subito ribattezzato «gronchite». E poi c’era la resistenza dei dossettiani. Perfino nella diplomazia vaticana si auspicava una collocazione più defilata dell’Italia, ospite della Santa Sede. Fu Pio XII a rompere gli indugi: il cristiano doveva rifiutare il motto «si vis pacem para bellum», ma anche l’espressione «pace a tutti i costi»; perché l’opzione pacifista doveva essere «pratica e realistica», non frutto di «debolezza o stanca rassegnazione». Il trionfo di De Gasperi Così vinse De Gasperi. E l’Italia non ebbe a pentirsene. Né in termini economici né in quanto a libertà. Certamente non nel 1956, quando l’Armata Rossa invase l’Ungheria per stroncare un tentativo di riformismo, o nel 1968 quando i tank del Patto di Varsavia stroncarono nel sangue la primavera di Dubcek a Praga. Al punto che Enrico Berlinguer, il capo di quel partito comunista italiano che negli anni ’50 si era battuto in nome del pacifismo contro la scelta atlantica, nel 1976 riconobbe a Giampaolo Pansa, sul Corriere, che sotto l’ombrello Nato si sentiva più sicuro per la democrazia italiana. Da un certo punto di vista la scelta della Dc di allora fu persino più facile, perché più obbligata, di quella di fronte alla quale si trova l’Italia di oggi: il mondo diviso in blocchi, il fattore K, il pericolo comunista, non lasciavano molti margini di scelta. Ma, d’altra parte, allora ci si trovava di fronte a una minaccia grave ma pur sempre rimasta sempre e solo virtuale: una Guerra Fredda fondata sulla deterrenza che per fortuna non diventò mai calda. Mentre oggi la guerra è calda del sangue di migliaia di morti civili in Ucraina, e il pericolo è ben più reale e immediato, e l’espansionismo russo è anche più cinico, animato com’è da un nazionalismo neanche più portatore di una missione universale, come era ai tempi del comunismo. Qualcosa di questa radice occidentalista (che del resto non impedì alla Dc di essere anche europeista con De Gasperi, neo-atlantista e mediterranea con Fanfani, filo-palestinese con Andreotti) è per fortuna rimasta nell’elettorato italiano, almeno in quello più anziano. In una ricerca di Ipsos realizzata per la Fondazione De Gasperi, la scelta di entrare nella Nato è ancora considerata da un terzo degli italiani nati prima del 1974 come la più importante fatta dalla Dc (contro un quarto dei «millennial», nati dopo il 1980). E, curiosamente, gli ex elettori scudocrociati — ne sono rimasti 5.628.000 che votarono Dc nel 1992 — riversano oggi i loro voti principalmente al Pd (13,8%) e a Fratelli d’Italia (13,4%); cioè ai due partiti più coerentemente schierati dalla parte dell’Europa e dell’Occidente nella crisi ucraina e più attenti alla dimensione internazionale della politica. Il buco nero al centroC’è da chiedersi se questo seme potrà germogliare in un sistema politico italiano che ha oggi al suo centro un grande buco nero, un partito di maggioranza relativa che non lo è più, che non ha una sua idea della politica estera, e soprattutto tende a subordinarla agli interessi contingenti della politica interna. Naturalmente non nascerà una nuova Dc. Ma nei due schieramenti potrebbero saldarsi intorno al Pd e a FdI poli che garantiscano, anche nell’alternanza delle maggioranze, la collocazione del Paese. Oppure potrebbe un giorno nascere al centro una maggioranza ridefinita da questa guerra, unita dalla politica estera e di difesa, garante dell’europeismo e del rapporto transatlantico, corazzata contro gli avventurismi filo-russi o filo-cinesi. Ma, per nascere, avrebbe bisogno di una legge elettorale proporzionale. Proprio ciò che i due maggiori eredi del voto democristiano, Pd e FdI, per ora rifiutano. 3 aprile 2022 (modifica il 3 aprile 2022 | 21:37) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-04-03 19:38:00, Il ruolo che fu di De Gasperi e degli altri democristiani. Ora intorno a Pd e FdI potrebbero saldarsi due poli per garantire, nell’alternanza, la collocazione del Paese, Antonio Polito

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