La trattativa per entrare nella lista dei candidati. Ma ci sono solo posti in piedi

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di Francesco Verderami

La premiership è un problema politico di prima grandezza, serve a Meloni come a Letta per catalizzare i consensi dei rispettivi schieramenti, la prima mossa di una partita a scacchi

Ai primi segnali di crisi, Draghi rimase sorpreso dall’atteggiamento dei partiti e disse di non capirli, «non li capisco perché così si scivola verso il voto anticipato. Ma i partiti non sono pronti per affrontarlo». Aver ragione non lo soddisfa e tantomeno intende togliersi sassolini dalle scarpe. Anche perché il premier ha espressamente chiesto di esser lasciato fuori dalla disputa elettorale. Epperò vorrebbe comprendere alcune dinamiche politiche, il senso di certe scelte. Prova a farsi spiegare, per esempio, come mai il centro non riesca a unirsi e a trovare un’intesa. E quando gli riferiscono che è una storia di vecchi dissapori, di ripicche e regolamenti di conti, non riesce a trattenersi: «Ancora?». Lo stupore è studiato, serve a celare ciò che davvero pensa del Palazzo e del rapporto con i cittadini. D’altronde gli basta leggere i sondaggi, in base ai quali si rende conto che ci sarebbe — anzi c’è — una domanda politica da parte dell’opinione pubblica e tuttavia manca un’offerta adeguata.

È pure convinto che la contesa sul suo nome, evocato in questi giorni da (quasi) tutti i leader di partito, scemerà appena la campagna elettorale entrerà nel vivo. Al momento è usato — suo malgrado — come un corpo contundente, come strumento tattico in vista di unioni o di separazioni. Non si capirebbe altrimenti perché Calenda e Renzi lo indicano come successore di se stesso a Palazzo Chigi e pur pensandola allo stesso modo non si mettono d’accordo. E nemmeno si comprenderebbe perché il capo di Azione chiede a Letta di convergere su Draghi per costruire la coalizione, nonostante il segretario del Pd gli abbia spiegato che il Rosatellum non prevede un candidato comune per la presidenza del Consiglio e che l’alleanza è solo a fini elettorali.

Il punto è che la premiership è un problema politico di prima grandezza, serve a Meloni come a Letta per catalizzare i consensi dei rispettivi schieramenti, è la prima mossa di una partita a scacchi che per la leader di Fratelli d’Italia vale Palazzo Chigi e per il capo dem il primato nazionale. Perché, come spiega un dirigente pd, «a meno di un clamoroso autogol dei nostri avversari, possiamo puntare a mitigare la sconfitta». Il resto si vedrà: al Nazareno c’è una scuola di pensiero convinta che «il governo del centrodestra durerà poco», e un’altra che prevede «Meloni a Palazzo Chigi per la legislatura».

Però c’è da giocare la sfida del 25 settembre, e siccome i partiti — come aveva previsto Draghi — non erano pronti ad affrontarla, è tutto un cantiere. Sta per iniziare la trattativa per i posti alle Camere e con il taglio della capienza i parlamentari dem si sentono vittime predestinate dell’operazione «campo aperto». A loro la direzione del Pd illustrerà oggi i criteri di composizione delle liste: verrà spiegato come sarà fondamentale la battaglia per fermare le destre sovraniste e di conseguenza verrà chiesto un gesto collettivo di generosità: «seggi alla Patria» per far spazio agli alleati di sinistra, di centro, di centrodestra e persino a personalità esterne, come quelle della Comunità di Sant’Egidio.

Quale sia il clima tra i democratici lo si può intuire dal tenore della conversazione tra alcuni deputati, avvenuta ieri in Transatlantico. «Molti di noi verranno sacrificati. Solo che una volta facevamo posto alle riserve della Repubblica. Ora daremo spazio alla repubblica delle riserve». Così è partito un florilegio di contestazioni e di recriminazioni. «Non accettiamo Conte in coalizione perché non ha votato l’ultima fiducia a Draghi e accettiamo Fratoianni che la fiducia a Draghi non l’ha mai votata». «Speranza prendeva la linea politica da Conte e adesso prenderà il seggio dal Pd». «Zingaretti aveva lasciato la segreteria del partito, dicendo che gli faceva schifo, e adesso è disponibile a farsi candidare da una segreteria che ha una linea politica opposta alla sua».

I capicorrente sono al corrente della tensione e c’è chi cerca di evitare l’assalto da treni a ferragosto. Giorni fa il ministro Orlando ha spiegato a un dirigente di Azione che «sarebbe meglio se voi andaste da soli, perché conquistereste i voti del centrodestra». Non si è capito se l’abbia fatto in ostilità alla linea politica di Letta o per evitare di trovarsi solo con posti in piedi nel partito. Fuori c’è la ressa e c’è da mettere ordine. Letta vorrebbe far entrare Calenda ma non Renzi. Solo che Calenda — se accettasse l’alleanza — vorrebbe posti in prima fila, visto che appresso potrebbe portarsi anche i ministri provenienti da Forza Italia. C’è da sistemare Di Maio, forse verrà indirizzato verso una lista civica da far organizzare al renziano Librandi in collaborazione con Sala, che intanto prende prenotazioni anche per esponenti di Leu, «a patto che non siano i soliti noti». Dietro le dichiarazioni per la stampa, è questa la vera campagna elettorale. E nessuno parla di Draghi.

25 luglio 2022 (modifica il 25 luglio 2022 | 23:28)

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, 2022-07-25 21:34:00, La premiership è un problema politico di prima grandezza, serve a Meloni come a Letta per catalizzare i consensi dei rispettivi schieramenti, la prima mossa di una partita a scacchi, Francesco Verderami

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