Invalsi: un giudizio stereotipo

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Scuola Montessori

Un palazzo di sei piani, entrate di milioni di euro e la consapevolezza che non serve a nulla, una spesa inutile, tanto da aver pensato onestamente di abolire tutto, chiudere tutto, forse sfittare il palazzo e lasciare alla realtà della vita, quella che ha il sapore della sincerità, dell’onestà, quella che non sa recitare, mai.

Un tentativo, visto che al primo sussulto il palazzo di sei piani è rimasto “occupato”, i soldi, e tanti, continuano ad entrare (che poi sono soldi dei contribuenti), e il carrozzone va avanti consegnando scenari di spettacolo che hanno il sapore dell’illusione, il sapore di quella magia che ci fa credere in ogni possibile e talvolta anche sognare. Facile. Facile così.

Talvolta però lo scenario è quello che fa da tempo la linea guida, nel suo messaggio che è oramai il refrain di uno status quo difficile da debellare, tracciando il solco culturale, non soltanto nell’immaginario collettivo, tra due racconti perché due sono, o sembrano essere, gli universi paralleli che pare non si incontrino mai, e i cui soli protagonisti-attori sono l’opulenza e la povertà: la solita storia, il solito racconto!!?

È la misura di tutto, del tutto, e purtroppo dell‘essere e farsi Scuola, per poi veicolare fondi e investire, in nome anche dell’autonomia, consentendo così che i paralleli continuino a permanere distanti.

Può mai davvero la misura del virtuale, come l’algoritmo che assegna o meno un trasferimento (e che casino produce…), parlare di un divario tra uno studente del Nord ed uno del Sud? – e già questo è offensivo in sé quando si parla di ragazzi accomunati e uguali nella loro età libera e spensierata, nei loro sogni rispetto al futuro!.

C’era un tempo nel quale la bravura o meno, la preparazione o meno, avveniva in un incontro faccia a faccia tra il maestro e lo studente, dove le crocette, le opzioni, non erano segnate da una spunta, ma erano frutto di un segno fatto con la bic. E la valutazione avveniva attraverso una correzione che aveva l’odore della paura dell’errore, il timore di un brutto voto, l’attesa del responso e la correzione in diretta affinché si comprendesse lo sbaglio, e poi una pacca sulla spalla e alla prossima interrogazione o al prossimo compito in classe: la Scuola UMANA.

Oggi siamo tutti un numero, un codice, un’opzione, un modulo di Google. Siamo tutti virtuali. E se il computer dice che il tuo livello è un A2 o un B1 o B2 o C1 non c’è nulla da fare, sei segnato. Un computer, un algoritmo. Ma davvero? o sto vivendo un film di fantascienza che è poi preludio di un futuro non lontano.

Possono le prove Invalsi sentenziare che uno studente del Nord è più bravo di uno del Sud? Non ci sto, e non ci sto sul quanto spesso si scrive e si legge in merito alla validità delle prove Invalsi, la cui narrazione è stereotipo e luogo comune di una narrazione fredda, come i numeri, spesso divisorio, perché in linea con la affermazione costante che il Nord è sempre migliore: persino la pubblicità ha protagonisti con l’accento del Nord: quel “né” che dà o dice (presuntuosamente) della presenza di cultura… .

Chi scrive insegna da trent’anni e molti di questi in trincea e nelle periferie del Sud più sud, dopo aver anche solcato la terra del Nord, come tutti i poveracci del Meridione. E il racconto è tutt’altro. E se c’è un divario esso nasce da molto lontano, ed è da trovarsi alla radice della storia del nostro Paese, delle scelte politiche ed economiche che in vero hanno prodotto un furto da parte del Nord all’opulenza del Sud…. , e da una Politica che vuole una Scuola-azienda, lontana dal fondativo su cui essa è stata costituita e soprattutto pensata.

È vero che esiste un divario radicale: i nostri studenti sono ragazzi che vivono i social, vestono la moda, ma sono puri e genuini con le loro scarpe sporche di strada e di piazze del proprio paese, di rincorse o corse in macchina, rubata al loro papà, di zaini vuoti e pieni di cultura che ha l’odore ed il sapore della povertà se misurata alla mancanza di strumenti e possibilità di cui il Nord sembrerebbe essere ricco, almeno le metropoli.

I nostri studenti nella loro semplicità, nella loro povertà, vanno a scuola, studiacchiano, sono fruitori del virtuale come e meglio del Nord, se poi in una competizione risolvono e vincono e si ritrovano a ripetere la gara perché impossibile che siano così bravi (è accaduto ad un gruppo di studenti del profondo Sud, in un Istituto di periferia). Ma poi l‘opulenza si è dovuta arrendere e i colletti bianchi hanno dovuto decretare la loro bravura.

I poeti, gli scrittori, l’arte e la cultura è Sud, ha il sapore del Sud, ha le mani sporche della terra del Sud. [E] Questo un computer lo sa? Lo può valutare? È una informazione o un dato su cui poi attraverso un algoritmo misurare il successo o meno, la bravura o meno?

Torniamo alla Scuola che ogni giorno comunque resta fedele al suo mandato, e ancora e comunque si veste di pazienza e di umanità nell’incontro di esperienze, storie e racconti che hanno il sorriso ingenuo e libero dei giovani, la fatica e talvolta la sofferenza di chi ama la Scuola e la sua professione, malgrado tutto.

Mario Santoro

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