Il fronte immobile di Kherson: «Dalla neve alle zanzare noi fermi qui da cinque mesi»

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di Lorenzo Cremonesi

Gli unici scontri tra i due eserciti a colpi di droni e artiglieria

DAL NOSTRO INVIATO

PERVOMAISKE (Fronte di Kherson)
Poco si muove nelle trincee del settore meridionale. Nonostante gli annunci altosonanti del presidente Volodymyr Zelensky per una «controffensiva veloce» volta a riconquistare Kherson e malgrado i fallimentari tentativi russi di riprendere l’avanzata verso Odessa, questa rimane una sorta di drôle de guerre. Lo testimonia di fronte a noi il 27enne tenente Luka della 36esima brigata meccanizzata: «Era ancora inverno ai primi di marzo, con gli alberi spogli, il gelo nelle ossa e i campi grigi, quando le nostre unità vennero mandate qui per fermare i blindati di Vladimir Putin. Adesso è piena estate, fa un caldo fottuto, le nostre notti sono infestate di zanzare, gli alberi sono verdi e i campi di grano indorati, pronti per la trebbiatura, prendono fuoco come cerini quando esplodono le granate. Ma noi siamo ancora qui, quasi fermi, tra questi villaggi sempre più distrutti dalle bombe e le stesse colline poco ripide», ci racconta dopo una folle corsa col suo gippone su tratturi sconnessi per evitare di essere presi di mira dai cecchini.

Siamo tornati qui a poco più di un mese dall’ultima volta per cercare di verificare lo stato della campagna che vorrebbe marcare la riscossa ucraina. E ci siamo imbattuti in una guerra di posizione fatta di duelli tra droni, sortite notturne con pochi tank e piccole pattuglie, battaglie aeree e soprattutto bombardamenti a distanza. I progressi ucraini sono stati al massimo di qualche dozzina di chilometri: Kherson resta a una ventina dalle loro postazioni più avanzate. Al meglio è possibile affermare che le iniziative sul fronte meridionale hanno costretto i russi a distogliere uomini e mezzi dal Donbass. Però lo scontro continua con vittime e danni: possiamo testimoniarlo dal campo. Luka e i suoi uomini ci avevano promesso che avremmo potuto visitare Kyselinka, uno tra la cinquantina di villaggi liberati nell’ultimo mese (per lo più minuscoli agglomerati di poche case). «Lo abbiamo ripreso due settimane fa, le nostre trincee si trovano nelle periferie occidentali, i russi sono fuori e il centro è diventato terra di nessuno», aveva spiegato. Ma arrivati tra le costruzioni di Pervomaiske, a due chilometri dalla prima linea, i comandi ci hanno segnalato via radio che si era alzata l’aviazione russa. Abbiamo udito alcune forti esplosioni non troppo distanti. Quindi, sono decollati i caccia ucraini. «Dobbiamo cercare subito un riparo», ha spiegato il tenente dirigendosi tra le abitazioni sventrate. Siamo scesi nelle cantine con alcuni civili. «Prima della guerra eravamo in più di 5.000 abitanti, ora ne restano appena 300, quasi tutti anziani contadini», racconta Vitaly, un 43enne che una volta lavorava in fabbrica e ora coltiva due vigneti.

In un momento di calma ci spostiamo rapidamente nel vicino abitato di Bilosirka. E qui si offre uno scenario inconsueto. Il villaggio è sostanzialmente disposto su due strade parallele. Sulla prima molte abitazioni appaiono danneggiate, se non completamente distrutte dalle bombe russe. Ma sulla seconda quasi non sono visibili danni. Il motivo? «La parte del villaggio che simpatizza coi russi non è stata colpita», risponde Tatiana Koroll, una 39enne rimasta col marito e due figlie, che è schierata con gli ucraini. Luka e i suoi evitano di andare sull’altra strada, anzi, ne restano distanti. «I collaborazionisti potrebbero segnalare la presenza di giornalisti stranieri e rischieremmo di essere presi di mira», dicono.

Accovacciati in una trincea presso un posto di blocco circondato da campi di grano inceneriti possiamo finalmente fare il punto della situazione con alcuni ufficiali anziani. «L’arrivo delle armi pesanti occidentali, specie dei lanciarazzi americani Himars, che colpiscono con precisione a oltre 80 chilometri di distanza, sta davvero facendo la differenza. Abbiamo centrato i tre ponti sul fiume Dnepr e adesso i russi hanno enormi difficoltà a inviare munizioni alle loro artiglierie di Kherson. Lo vediamo nel nostro quotidiano, per la prima volta i russi sparano molto meno, risparmiano munizioni. Ma gli Himars sono soltanto 20, troppo pochi, ne avevamo chiesti almeno 50: questi aiutano a difenderci, ma non danno sufficiente copertura per un attacco su larga scala», raccontano.

Ma Kiev ha fretta. Quella di Kherson è l’unica provincia a ovest del Dnepr che i russi sono riusciti a occupare già nelle prime settimane della guerra. E adesso Putin vi sta imponendo a tappe forzate il suo progetto di «russificazione» dell’Ucraina. Già le banche locali accettano solo rubli al posto delle grivne; internet, media e rete telefonica sono ormai monopolio di Mosca; grandi cartelloni appesi per le strade garantiscono che la «madre Russia» è tornata per restare. Gli agenti russi arrestano i vecchi leader politici locali e perseguitano ogni dissidenza. A Kherson, in città, è rimasto un terzo dei 300.000 abitanti originari. Momento culminante dovrebbe essere il referendum, che Putin vorrebbe già a metà settembre per certificare l’annessione completa. «Una farsa, che nessun Paese democratico potrà accettare» replicano gli ucraini. E intanto intensificano le azioni di guerriglia partigiana, assieme agli omicidi mirati di collaborazionisti. Ieri un drone-killer ha ferito gravemente alla testa Vladimir Saldo, l’ex sindaco di Kherson che aveva accettato di lavorare con la nuova amministrazione russa. Anche nella vicina cittadina di Nova Karkhovka è stato aggredito il vicesindaco. Sono gli ultimi attentati di una lunga serie. Se è vero che l’offensiva militare fatica, la guerra continua, con ogni mezzo.

6 agosto 2022 (modifica il 6 agosto 2022 | 22:23)

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, 2022-08-06 20:44:00, Gli unici scontri tra i due eserciti a colpi di droni e artiglieria, Lorenzo Cremonesi

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