I silenzi su crescita e debito

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Mezzogiorno, 22 settembre 2022 – 08:53 di Giuseppe Coco La campagna elettorale che si chiude non verrà ricordata per i grandi dibattiti sul nostro futuro e le decisioni di vasto respiro che ci attendono. Per la verità non ricordo grossi slanci ideali negli ultimi decenni, la estrema mobilità dell’elettorato del nostro Paese, seguita a una immobilità quasi totale della Prima Repubblica, si è realizzata in gran parte con meccanismi competitivi deleteri, in cui vince chi promette in maniera credibile i più grossi trasferimenti alle parti più diverse. Ed è sistematicamente più credibile chi non governa. Assenti dalle discussioni sono le due grandi questioni economiche che fronteggiamo da sempre: la crescita e il debito. Le due questioni sono legate in maniera biunivoca. La crescita è condizionata dal debito nel senso che, se il costo del nostro mastodontico debito (i.e. il carico di interessi) dovesse crescere, non avremmo risorse per i servizi pubblici. Neppure per la crescita (soprattutto investimenti in istruzione e innovazione e infrastrutture) e il nostro destino sarebbe segnato. D’altro canto senza crescita il debito stesso diventa alla lunga insostenibile. Per un lungo periodo le preoccupazioni sul nostro debito pubblico sono passate in secondo piano per la pandemia e per le diverse emergenze sistemiche che fronteggiamo. Anche l’autorità sovranazionale di vigilanza sui conti pubblici (Commissione Europea) ha accantonato i parametri e sospeso temporaneamente le regole del Patto di stabilità. Ma quanto è preoccupante la situazione del nostro debito? Negli ultimi anni il debito ha oscillato attorno al 150% del Pil, con una certa variabilità dovuta alle forti oscillazioni del Pil per la pandemia. È prevedibile che a regime ritorni a livelli un po’ inferiori, ma il maggiore ottimismo dell’anno scorso va ormai abbandonato. Le diverse emergenze in corso diminuiranno il potenziale di crescita a breve e metteranno sotto pressione i trasferimenti per welfare che aumentano automaticamente con le crisi. Qualche anno fa Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sostennero che ci fosse una soglia del debito pubblico, il 90 per cento, sopra la quale i paesi smettevano di crescere. Da allora la loro tesi è stata ampiamente smentita. In particolare appare certo che la soglia non esiste; l’effetto dipende da vari parametri, ma è evidente che un paese che cresce molto per ragioni esogene in teoria si può permettere un debito maggiore. Ed è qui che subentrano le preoccupazioni per la nostra situazione. L’Italia è senza dubbio il paese della Ue che cresce meno, da almeno 20 anni. Si tratta sicuramente di un fatto strutturale non congiunturale. Anche le ragioni per cui non cresciamo non sono esattamente arcane. La radice sta nella bassa produttività del lavoro che a sua volta dipende dalla piccola dimensione delle nostre imprese, dal disinvestimento sia infrastrutturale che in capitale umano degli ultimi decenni, dallo scarsissimo investimento in innovazione, da una demografia sfavorevole e una immigrazione a basso capitale umano. Tutte questioni legate tra loro e legate sicuramente al debito, ma anche alle scelte sulle diverse voci di spesa pubblica. Se si guarda alla struttura della nostra spesa pubblica e la si confronta con quella dei paesi concorrenti della Ue si scopre che spendiamo di meno per istruzione, innovazione, cultura, sanità (e di più per pensioni e ordine pubblico). Differenze significative che anno dopo anno hanno costruito un gap enorme di dotazione di capitale fisico e umano tra noi e gli altri. Alla lunga, con questo sistematico disinvestimento e la preferenza per i trasferimenti, nessuno potrà credere che la nostra crescita sarà sufficiente a onorare i nostri debiti e di conseguenza nessuno, a partire dagli stessi italiani investirà in Italia. Questo sospetto diventa certezza se guardiamo alla serie degli investimenti privati. In concomitanza con la crisi finanziaria il rapporto tra investimenti e Pil crolla dal 18 al 14 percento tra il 2007 e il 2014, nonostante il Pil nello stesso periodo cali significativamente. In pochi anni al sud gli investimenti privati sono calati del 40 per cento e nonostante una ripresa, sono rimasti significativamente sotto i livelli pre-crisi. Rimaniamo un paese di grandi risparmiatori, ma non investiamo più su noi stessi. È evidente che fronteggiamo una crisi di fiducia sistemica che ha al centro la sostenibilità del nostro debito. In campagna elettorale alcune forze si lasciano andare a promesse di ulteriori trasferimenti, altre pretendono la modifica del Pnrr per fronteggiare emergenze varie. Non si tratta di novità e non è sorprendente, siamo in emergenza da 20 anni almeno. Un trasferimento ha effetti immediati sull’elettorato, un investimento, forse, ha un effetto a lungo termine. Chi lo finanzia non ne vedrà i frutti da Palazzo Chigi. A forza di emergenze però che siamo arrivati a questa situazione. Ogni volta c’è sempre una superiore esigenza ed una emergenza improrogabile: agli investimenti ci penseremo domani. 22 settembre 2022 | 08:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-09-22 06:54:00, Mezzogiorno, 22 settembre 2022 – 08:53 di Giuseppe Coco La campagna elettorale che si chiude non verrà ricordata per i grandi dibattiti sul nostro futuro e le decisioni di vasto respiro che ci attendono. Per la verità non ricordo grossi slanci ideali negli ultimi decenni, la estrema mobilità dell’elettorato del nostro Paese, seguita a una immobilità quasi totale della Prima Repubblica, si è realizzata in gran parte con meccanismi competitivi deleteri, in cui vince chi promette in maniera credibile i più grossi trasferimenti alle parti più diverse. Ed è sistematicamente più credibile chi non governa. Assenti dalle discussioni sono le due grandi questioni economiche che fronteggiamo da sempre: la crescita e il debito. Le due questioni sono legate in maniera biunivoca. La crescita è condizionata dal debito nel senso che, se il costo del nostro mastodontico debito (i.e. il carico di interessi) dovesse crescere, non avremmo risorse per i servizi pubblici. Neppure per la crescita (soprattutto investimenti in istruzione e innovazione e infrastrutture) e il nostro destino sarebbe segnato. D’altro canto senza crescita il debito stesso diventa alla lunga insostenibile. Per un lungo periodo le preoccupazioni sul nostro debito pubblico sono passate in secondo piano per la pandemia e per le diverse emergenze sistemiche che fronteggiamo. Anche l’autorità sovranazionale di vigilanza sui conti pubblici (Commissione Europea) ha accantonato i parametri e sospeso temporaneamente le regole del Patto di stabilità. Ma quanto è preoccupante la situazione del nostro debito? Negli ultimi anni il debito ha oscillato attorno al 150% del Pil, con una certa variabilità dovuta alle forti oscillazioni del Pil per la pandemia. È prevedibile che a regime ritorni a livelli un po’ inferiori, ma il maggiore ottimismo dell’anno scorso va ormai abbandonato. Le diverse emergenze in corso diminuiranno il potenziale di crescita a breve e metteranno sotto pressione i trasferimenti per welfare che aumentano automaticamente con le crisi. Qualche anno fa Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sostennero che ci fosse una soglia del debito pubblico, il 90 per cento, sopra la quale i paesi smettevano di crescere. Da allora la loro tesi è stata ampiamente smentita. In particolare appare certo che la soglia non esiste; l’effetto dipende da vari parametri, ma è evidente che un paese che cresce molto per ragioni esogene in teoria si può permettere un debito maggiore. Ed è qui che subentrano le preoccupazioni per la nostra situazione. L’Italia è senza dubbio il paese della Ue che cresce meno, da almeno 20 anni. Si tratta sicuramente di un fatto strutturale non congiunturale. Anche le ragioni per cui non cresciamo non sono esattamente arcane. La radice sta nella bassa produttività del lavoro che a sua volta dipende dalla piccola dimensione delle nostre imprese, dal disinvestimento sia infrastrutturale che in capitale umano degli ultimi decenni, dallo scarsissimo investimento in innovazione, da una demografia sfavorevole e una immigrazione a basso capitale umano. Tutte questioni legate tra loro e legate sicuramente al debito, ma anche alle scelte sulle diverse voci di spesa pubblica. Se si guarda alla struttura della nostra spesa pubblica e la si confronta con quella dei paesi concorrenti della Ue si scopre che spendiamo di meno per istruzione, innovazione, cultura, sanità (e di più per pensioni e ordine pubblico). Differenze significative che anno dopo anno hanno costruito un gap enorme di dotazione di capitale fisico e umano tra noi e gli altri. Alla lunga, con questo sistematico disinvestimento e la preferenza per i trasferimenti, nessuno potrà credere che la nostra crescita sarà sufficiente a onorare i nostri debiti e di conseguenza nessuno, a partire dagli stessi italiani investirà in Italia. Questo sospetto diventa certezza se guardiamo alla serie degli investimenti privati. In concomitanza con la crisi finanziaria il rapporto tra investimenti e Pil crolla dal 18 al 14 percento tra il 2007 e il 2014, nonostante il Pil nello stesso periodo cali significativamente. In pochi anni al sud gli investimenti privati sono calati del 40 per cento e nonostante una ripresa, sono rimasti significativamente sotto i livelli pre-crisi. Rimaniamo un paese di grandi risparmiatori, ma non investiamo più su noi stessi. È evidente che fronteggiamo una crisi di fiducia sistemica che ha al centro la sostenibilità del nostro debito. In campagna elettorale alcune forze si lasciano andare a promesse di ulteriori trasferimenti, altre pretendono la modifica del Pnrr per fronteggiare emergenze varie. Non si tratta di novità e non è sorprendente, siamo in emergenza da 20 anni almeno. Un trasferimento ha effetti immediati sull’elettorato, un investimento, forse, ha un effetto a lungo termine. Chi lo finanzia non ne vedrà i frutti da Palazzo Chigi. A forza di emergenze però che siamo arrivati a questa situazione. Ogni volta c’è sempre una superiore esigenza ed una emergenza improrogabile: agli investimenti ci penseremo domani. 22 settembre 2022 | 08:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

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