Genitori compressi, bambini smarriti. Lettera

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Inviata da Milena Testa – I fatti di cronaca che ultimamente sono avvenuti ci inducono a pensare che, nella società nella quale viviamo sembra aumentare il divario tra le due agenzie educative più importanti: la famiglia e la scuola. Spesso la sbandierata ed auspicata collaborazione tra di esse, finalizzate al benessere dei bambini che in entrambe trascorrono gran parte della loro vita, rimane solo enunciata o addirittura negata.

I due grandi schieramenti, da un lato i genitori e dall’altro i docenti, vedono allontanarsi sempre di più la speranza della reciprocità al posto della quale, spesso si innalzano dei muri e si intraprendono battaglie che erodono il già precario equilibrio.

Al di là delle banali e inutili accuse reciproche, non si può negare che la scuola venga sempre più spesso chiamata in causa dalle famiglie; esse infatti, non riescono più a svolgere da sole la funzione educante, o perlomeno quella porzione di essa che in passato è stata di loro esclusiva competenza; i genitori infatti, ormai “compressi”, stritolati dalle incombenze lavorative, distratti dalle mille superficialità a cui la nostra società ci obbliga, non riescono più a trovare il giusto equilibrio tra il ruolo di
donna/uomo e madre/padre. Sempre più schiacciati dalle mille attività quotidiane, frutto di una struttura esistenziale che sembra sfuggire di mano, non riescono a trovare altra soluzione se non quella di chiedere sostegno ad una scuola pubblica che
tenta di fare i salti mortali, ma che ovviamente non riesce a soddisfare in pieno le loro richieste.

Da questo deriva una nuova strutturazione del periodo dell’infanzia e della fanciullezza, caratterizzato da bambini “smarriti”, i quali non riescono a comunicare i loro bisogni a dei genitori troppo distanti anche se presenti fisicamente, riversando
sulla scuola la gestione di dinamiche a cui essa tenta di dare delle risposte non sempre efficaci. L’aumento dei disturbi della sfera del linguaggio, la carenza delle autonomie correlate alle tappe di sviluppo, le difficoltà motorie, sono solo alcune delle evidenti problematiche con cui la scuola tenta di fare i conti tutti i giorni. Non si può negare che la nostra società non sia per nulla strutturata a misura di bambino; non bisogna di certo scomodare la Dichiarazione dei diritti dell’infanzia (1989) per ricordare che tutte le decisioni che vengono prese dagli adulti, sia all’interno della famiglia che delle istituzioni, devono avere come supremo interesse quello del bambino; inoltre ogni bambino ha diritto ad essere curato, se sta male, ad essere ascoltato; ha il diritto di giocare, di riposarsi e il diritto di avere tempo libero.

Sembra che la maggior parte degli adulti che si relazionano con bambini abbiano dimenticato il significato della “sintonizzazione emotiva”; il nostro sistema nervoso è costruito in modo da rispecchiarsi in quello dei nostri simili (neuroni a specchio) e comprenderne gli stati affettivi. E’ qualcosa che sembra ormai inesistente all’interno della società del
cambiamento, della velocità, “della performance”, dove ogni bambino viene spinto a fare sempre più attività, sempre più sport, e ad avere prestazioni eccellenti all’interno di una cultura iper-competitiva. Non è difficile osservare che, i genitori chiedono alla scuola di allungare i tempi di permanenza dei bambini al suo interno, non solo nella giornata scolastica, ma addirittura nei mesi dell’anno; ormai si assiste alla permanenza nei locali scolastici di bimbi anche molto piccoli, (3 anni non compiuti), per un tempo che non è per nulla funzionale alla loro crescita, ma che cerca di soddisfare le richieste dei genitori.

Forse vale la pena ricordare che nella triade (o molto spesso diade) genitori-bambini, la parte più fragile, con maggiori esigenze, con più bisogni più delicati è quella dell’infanzia e della fanciullezza; infatti trattandosi di soggetti il cui sviluppo fisico, psichico, intellettivo, linguistico, motorio non è ancora del tutto concluso, avrebbero necessità di maggiore tutela rispetto agli adulti, individui maturi che hanno portato a termine la formazione della loro persona.

Quello che accade in realtà è che i bambini invece, sono costretti a tenere ritmi di vita che per nulla sono rispettosi del loro livello di sviluppo e di maturazione; mi chiedo: è coerente far vivere a dei bambini una vita a misura di adulto? E’ giusto tenerli
impegnati per lo stesso numero di ore della giornata lavorativa di un genitore? E’ proficuo per il loro sviluppo concedergli lo stesso periodo di ferie che spetta ad un lavoratore?

I bambini non sono adulti e in quanto bambini hanno delle esigenze che non possono e non devono essere le stesse degli adulti. Il mio non è per nulla un atto di accusa, ma una riflessione su una condizione dell’infanzia e della fanciullezza che sicuramente avrà delle conseguenze nella futura vita adulta dei bambini di oggi; ancora mi chiedo come può la scuola interpretare e soddisfare i nuovi bisogni del bambino dimenticato, trascurato, adultizzato, sconosciuto, incompreso, impaurito? Di certo non continuando ad alimentare la cultura del “noi” contro “voi”, dello scontro tra adulti, genitori e docenti, al centro del quale la condizione del bambino è l’unica a farne le spese; occorre che la scuola, tutta in generale, ma soprattutto la scuola statale,
rifletta su se stessa e sulle nuove funzioni ed identità che dovrà darsi; una scuola che assuma un ruolo strategico e privilegiato all’interno delle istituzioni pubbliche ed esplichi la sua funzione educante anche nei confronti delle famiglie; occorre creare
una comunità di intenti all’interno della quale ognuna delle parti assolva, con fatica e sacrificio, al proprio compito.

“Il bene ed il male dell’uomo nell’età matura è strettamente legato alla vita infantile da cui ebbe origine. Sull’infanzia ricadranno tutti i nostri errori e su di essa si ripercuoteranno in modo indelebile”.

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