di Beppe Severgnini
«Mi ha rivelato cosa le sussurra Bill Murray all’orecchio in Lost in Translation. Dicendomi però di non raccontarlo in giro»
T engo in mano la confezione del dvd: e questo già dice chi sono, una persona anziana. Nessuno sotto i cinquant’anni maneggia la confezione di un dvd, se non deve schiacciare una zanzara. L’immagine di copertina è singolarmente brutta. C’è un tipo di mezza età seduto sul letto sfatto in una stanza d’albergo. Ha pochi capelli. Indossa una vestaglietta color diarrea. Ai piedi, le pantofole di spugna che offrono negli hotel: sempre troppo corte. In Asia, dove le producono, non hanno ancora capito che europei e americani hanno, in media, i piedi più lunghi. Infatti, il tipo ha i talloni fuori, ma non sembra preoccuparsene. Ha un sorriso un po’ ebete, quello che viene quando si ha molto sonno o si è innamorati. Dietro di lui due lampade e, lontane, le luci colorate di una metropoli. La copertina non dice qual è, ma io lo so: Tokyo. Sul retro, un’altra immagine. Migliore, bisogna dire. Di fianco al tipo in copertina, che nel frattempo si è rivestito, c’è una ragazza bionda. Vent’anni, a occhio. I due sono seduti vicini, appoggiati a una tappezzeria zebrata. La ragazza ha un casco di capelli rosa. Porta un abito nero sbracciato. Tiene le mani sull’orlo della gonna. Guarda l’obiettivo con gli occhi socchiusi. Sorride.
Ok, l’avete capito. Il film è di Sofia Coppola e s’intitola Lost in Translation. In italiano è diventato L’amore tradotto (se esistesse l’Oscar per la Peggior Traduzione di un Titolo, sarebbe già assegnato). Il 50enne con la vestaglia è Bill Murray. La ragazza con i capelli rosa, Scarlett Johansson. Forse è il film che amo di più, uno dei pochi che rivedo regolarmente. Un capolavoro di dolcezza e jet-lag. Da quando è uscito, nel 2003, mi domando perché mi colpisca tanto. Poiché non riuscivo a trovare a una risposta, una decina d’anni fa ho pensato di chiederlo direttamente a Scarlett. Ci siamo incontrati nella Francia del nord. Al settimanale «7» del Corriere era stata offerta la possibilità di un’intervista di copertina. Quando me ne hanno parlato, ero all’aeroporto prima che finissero la frase. Si trattava di una intervista vera: due persone in una stanza, senza fretta. Non una delle micro-interviste a rotazione che precedono l’uscita di un film, quelle che in gergo si chiamano junkets. Attori e registi stanno seduti nello stesso posto — stessa sedia, stesso sorriso, stesso manifesto sullo sfondo — e rispondono meccanicamente. Siccome lavorano nel cinema, certo, sanno recitare. I più bravi, in quei pochi minuti, riescono addirittura a convincerci che gli importa qualcosa di noi.
Be’, con Scarlett non è andata così. Sono arrivato a Parigi, ho trovato l’auto che mi avrebbe portato tra le vigne di Epernay, dove Ms Johansson aveva il quartier generale. Qualche junkets era previsto, certo. I colleghi entravano nella stanza dell’attrice e uscivano poco dopo, quasi mai entusiasti. C’era anche un’italiana che conoscevo. Mi ha visto e ha detto: «Buona fortuna. Simpatica come una cicca nei capelli, la ragazza». «Cicca», in Lombardia, vuol dire gomma, chewing-gum. Quindi avete capito: non simpaticissima, la giovane Johansson, secondo la collega. Quand’è arrivato il mio turno, a metà pomeriggio, non ero emozionato — un giornalista non lo ammetterà mai. Diciamo, contento. Sapevo che avremmo avuto tempo. Ero preparato, conoscevo i suoi film. Non solo Lost in Translation. Scarlett sembrava un’attrice versatile e convincente. E una giovane donna affascinante, certo. Un fascino che non riuscivo a spiegarmi del tutto. Mi ero preparato leggendo ritratti e interviste: quelle dei colleghi maschi erano spesso imbarazzanti. Le domande erano del genere: «Lei è divina, o solo meravigliosa?». Mi sono ripromesso di mantenere un contegno. Finché non sono entrato.
Per cominciare: Scarlett era più piccola di quanto immaginassi. Uno e sessanta scarso. Stava seduta sul divano, le scarpe sul tappeto, le gambe raccolte sotto la gonna a fiori. Le ho chiesto, come prima cosa: possiamo metterci vicino alla finestra? Il mio iPhone è scarico, e mi serve per registrare l’intervista — ho bisogno di una presa di corrente, e c’è solo lì. Mi ha guardato e ho capito, con la rassegnazione degli imputati e degli innamorati, che il destino del nostro incontro si sarebbe deciso nei successivi dieci secondi. Ne sono bastati cinque. Ha sorriso, si è alzata, si è spostata. «Cosa faremmo senza i vecchi, buoni iPhone?», ha scherzato. La conversazione — seduti di fronte, schiacciati contro il muro — è corsa via. Scarlett Johansson era una che rispondeva alle domande, sospetto lo sia ancora. Abbiamo ricordato L’uomo che sussurrava ai cavalli, il suo vero esordio cinematografico, e Robert Redford che diceva, parlando di lei: «She’s thirteen, going thirty», ha tredici anni, va per i trenta. E poi il filotto di ottimi film all’inizio degli anni Duemila: La ragazza con l’orecchino di perla, Una canzone per Bobby Long, Match Point e Scoop, Black Dahlia, Vicky Cristina Barcelona (Scarlett mi piaceva meno nella versione inguainata alla Iron Man, ma non gliel’ho detto).
Le ho chiesto di Lost in Translation , mia deliziosa ossessione. «Mi tolga una curiosità. Il personaggio di Murray era innamorato di lei?». Risposta: «Lo sarebbe stato, se fosse stato un po’ più giovane, o se lei fosse stata un po’ più vecchia. Era un amore platonico. Penso che lei gli abbia mostrato qualcosa, e lui l’abbia guidata, in qualche modo. Lui s’illumina, quando è con lei. E lei pure, quando è con lui. Grazie a questo incontro riesce a transitare verso una nuova fase della propria vita». Scarlett si è accorta che conoscevo bene il suo lavoro, ma ha capito che sapevo poco o nulla della sua vita privata. «Veramente? Non sa neanche con chi sono sposata?». No, le confesso. «You’re my dream interviewer! Lei è il mio intervistatore da sogno! Avanti, parliamo di politica». Rileggendo l’intervista a distanza di anni, mi accorgo di quanto la giovane americana Scarlett J. fosse lucida e, purtroppo, premonitrice. Le ho chiesto se fosse delusa da Obama, allora al primo mandato. «Non delusa. Ancora piena di speranze. Delusa, invece, dalle divisioni della politica americana, dalla polarizzazione della nostra società. La faziosità dei media è ripugnante, davvero. Veramente difficile da mandar giù. Speravo che questo sarebbe cambiato. Ma non è cambiato». Non crede sia anche una questione di mercato? I media hanno capito che il pubblico vuole leggere, ascoltare e vedere chi gli dà ragione. La gente — in America, in Europa, in Italia — non vuole dubbi, con la prima colazione. Ms Johansson sembra d’accordo: «Il pubblico ama lo status quo. Vuole sentirsi dire che tutto è più o meno ok. La gente lavora tantissimo, in America. Si ammazza di lavoro. Non credo abbia tempo e voglia di pensare alla politica, all’ambiente, alla big picture. Non ha tempo e voglia di controllare le notizie. Ha bisogno di cose semplici e accessibili, la mente è affaticata dalla durezza della vita quotidiana».
Verso la fine dell’intervista, a sorpresa, Scarlett mi ha chiesto perché, a mio giudizio, lei piacesse tanto agli uomini. «Ci sono attrici più belle di me», ha aggiunto serissima. Forse è vero, le ho risposto; ma molte intimidiscono. Scarlett è una ragazza americana. La cassiera più carina del supermercato Walmart, di fronte alla quale si forma la coda più lunga. Ho pensato per un attimo che mi cacciasse. Non lo ha fatto, ha sorriso. «Stasera c’è la cena, ci vediamo là». A cena, nelle cantine dell’azienda, mi ha chiesto di sedermi accanto a lei. Ho ringraziato mentalmente il Corriere della Sera. Era un duro lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo. Salutandola, le ho chiesto: cosa le ha sussurrato Bill Murray, alla fine di Lost in Translation? Si è avvicinata e me l’ha detto. «Ma non lo racconti in giro!», ha concluso ridendo. Scarlett, tranquilla: sarò una mummia. L’età, ormai, è quella.
Questa storia ha un post scriptum . Qualche mese dopo la pubblicazione dell’intervista, nella primavera 2011, ricevo una telefonata dall’agenzia di Scarlett Johansson. «C’è un grosso evento a Shanghai. Scarlett ha la possibilità di invitare due giornalisti, un americano e un europeo. E ha fatto il suo nome. Ha un bel ricordo del vostro incontro». Deglutisco, rispondo. «Anch’io ho un bel ricordo: insieme a quella con Bruce Springsteen, l’intervista più bella della mia carriera. Ma dovete sapere che, tra qualche mese, festeggio le nozze d’argento. E dove abbiamo prenotato il viaggio dell’anniversario? A Shanghai. Se lo annullo, per andare nella stessa città con Scarlett Johansson, anche il mio solidissimo matrimonio potrebbe vacillare». L’agente ride, rido anch’io. Cos a non si fa per te, Ortensia.
25 luglio 2022 (modifica il 25 luglio 2022 | 07:10)
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, 2022-07-25 05:13:00, «Mi ha rivelato cosa le sussurra Bill Murray all’orecchio in Lost in Translation. Dicendomi però di non raccontarlo in giro», Beppe Severgnini