È giusto candidare Di Maio (nel collegio)

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politeia Mezzogiorno, 7 agosto 2022 – 08:41 I collegi uninominali sarebbero stati il posto ideale per candidare una personalità, anche senza partito o senza ancora un partito, che aderisce alla coalizione di Antonio Polito Luigi Di Maio è diventato la pietra dello scandalo delle candidature del Pd. Dai numerosi aspiranti parlamentari con in tasca la tessera democratica il nome del ministro degli Esteri viene spesso evocato come il simbolo della situazione paradossale che si sta creando: per eleggere lui, e poi quelli di Fratoianni, e poi quelli di Bonelli, e poi i socialisti e poi quelli di Demos, e poi tutti quelli cui Letta vuol riconoscere un «diritto di tribuna», resterà nelle liste pochissimo spazio per eleggere dei Democratici con i voti dei Democratici. Sembra un discorso sensato. La colpa però non è di Di Maio. Prima di tutto perché è del tutto naturale e legittimo che un protagonista della vicenda politica degli ultimi dieci anni, una volta vicepresidente del Consiglio e una volta ministro, e ora a capo di una consistente pattuglia di parlamentari scissionisti dei Cinquestelle, voglia candidarsi alle prossime elezioni, qualsiasi giudizio intendiamo dare della sua azione politica (e i lettori di questa rubrica sanno che il nostro è stato spesso molto critico). Inoltre i collegi uninominali della quota maggioritaria sarebbero stati il posto ideale per candidare una personalità, anche senza partito o senza ancora un partito, che aderisce alla coalizione. È infatti proprio il collegio uninominale il luogo dove le appartenenze di lista scompaiono a vantaggio della convergenza su un candidato, che viene sottoposto agli elettori per nome e cognome, e deve conquistarsi l’elezione arrivando primo, non col sistema del listino bloccato. Sarebbe stato dunque il collegio uninominale la sede giusta per candidare Di Maio. E crediamo infatti che Di Maio si aspettasse proprio questo: la possibilità di correre in un collegio nella sua terra di origine. Un modo anche per verificarne l’apprezzamento presso gli elettori. Se davvero non ha un voto, come dice di lui Di Battista, avrebbe perso. Ma se avesse vinto, nessuno avrebbe potuto obiettare sulla sua rappresentatività. Invece questa sfida democratica non gli è stata consentita a causa dell’accordo che Calenda ha imposto a Letta per salvare la alleanza tra Azione e Pd. Il risultato è che nei collegi non si potrà candidare nessuno, nemmeno i capi dei partiti, che non sia un Dem o un seguace di Calenda. Di conseguenza Letta si è sentito obbligato di dare spazio nelle liste del Pd a una serie di «estranei», compreso Di Maio. Ne è scaturito un pasticcio, anche dal punto di vista della grammatica elettorale. I collegi uninominali, già stravolti dal taglio dei parlamentari che li hanno trasformati in gigantesche circoscrizioni nelle quali l’elettore non potrà davvero scegliere il suo eletto, sono stati così ulteriormente depotenziati nel loro valore democratico. Di Maio (ma anche Fratoianni e Bonelli), dovranno dunque essere eletti con i voti del Pd e nelle liste del Pd, invece che da una più ampia e trasversale platea di elettori. Di più: verranno «nascosti» nelle liste del Pd. Perché se l’elettore non volesse votarli avrebbe un solo modo: negare il consenso al simbolo del suo partito, danneggiandone dunque le sorti elettorali complessive. Ma di questa anomalia, che non è stato lui a cercare o a determinare, non è giusto che paghi le conseguenze Luigi Di Maio. Non candidarlo, a questo punto, sarebbe un modo implicito di dar ragione a Conte che ha ritirato la fiducia al governo Draghi, facendolo cadere; e dar torto invece al ministro che è rimasto fino alla fine sulla barca del governo insieme con il Pd. 7 agosto 2022 | 08:41 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-08-07 08:49:00, I collegi uninominali sarebbero stati il posto ideale per candidare una personalità, anche senza partito o senza ancora un partito, che aderisce alla coalizione,

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