Draghiani ferventi, interessati o immaginari: la sfida sul «brand» tra i partiti divisi

di Roberto Gressi

Un po’ tutti adesso rivendicano di averlo sostenuto con lealtà. Anche chi ha contribuito a determinarne la caduta

Il Brand è il segno distintivo, protetto da titolo di proprietà. Serve a non confondere le proprie opere con quelle di altri, e soprattutto, a difenderle dai saccheggiatori, dai cleptomani delle idee, dai trafugatori di reliquie, specialmente quando dicono di voler restituire al mondo un bene prezioso e invece ne fanno commercio per se stessi.

L’eredità

È un po’ quello che succede in queste ore a Mario Draghi, all’eredità Draghi, all’agenda Draghi, a qualunque cosa abbia la «D» del suo marchio stampigliata sopra. Si affannano i sostenitori della prima ora, si azzuffano con i convertiti in ritardo, capita anche che discepoli e pugnalatori si confondano. E come nell’Armata Brancaleone ci si scanna per imporsi come «lo vero papa», l’interprete autentico del Verbo, tenendo lontana, a colpi di rasoio, ogni possibilità di percorso comune con gli altri, che sono scismatici se non usurpatori.

La risposta del premier

Eravamo ancora in febbraio quando il premier ora dimissionario si permetteva di dire la sua sul suo futuro, a fronte di tanti che gliene disegnavano uno a loro misura, come federatore del centro: «Tanti mi candidano a tanti posti, mostrando una sollecitudine straordinaria nei miei confronti. Li ringrazio moltissimo, ma vorrei rassicurarli: se per caso decidessi di lavorare dopo questa esperienza un lavoro me lo trovo anche da solo».

Affermazione influente, ma solo in parte, come ha spiegato Dario Franceschini a Maria Teresa Meli, sul Corriere: «Le prossime elezioni saranno una sfida tra chi ha difeso Draghi e chi invece ha buttato tutto a mare. Non lo tireremo per la giacchetta, so bene che non ha intenzione di fare un percorso politico, ma lo schema è inevitabile, prescinde dalla sua volontà». Ed Enrico Letta: «Ora si tratta di scegliere tra il programma di Draghi e il salto nel buio proposto da Forza Italia e Lega».

Tutto per aria

Bene, allora è fatta, centrodestra (senza Mariastella Gelmini, Renato Brunetta e Mara Carfagna) da una parte e resto del mondo draghiano, checché ne dica Draghi, dall’altra, palla al centro e pedalare che il 25 settembre è vicino. Macché invece, è come minimo tutto per aria. «Letta non sbandieri Draghi come un santino», si infuria Carlo Calenda, che ripete che non parteciperà a nessun cartello elettorale: «Un branco di cialtroni ha mandato a casa l’italiano più rispettato al mondo, ma agenda Draghi e agenda Landini non stanno insieme». Sul fronte di Italia viva si rivendica di essere stati il deus ex machina che, in una situazione senza più speranza, ha voluto Draghi al governo e l’ha sostenuto fino alla fine, e quindi il moto di ribellione sgorga prepotente dall’animo. «E ora ci si dice con Luigi Di Maio sì e con Renzi no? Auguri, noi stiamo con l’area Draghi!».

Ah già la (benedetta) area Draghi. Che ci sia ciascun lo dice, dove sia (ancora) nessun lo sa. Pier Ferdinando Casini ne fa parte di diritto. Era sua la risoluzione di un rigo: «Ascoltate le comunicazioni del presidente del Consiglio, il Senato le approva».

Su tutto il resto però non c’è nulla di chiaro. Perché la marcia è lenta ma sicura e bisogna pure stare attenti a non morire inutilmente per Draghi, lui per primo non lo vorrebbe, quando le sue idee potrebbero vivere conquistando il diritto a un po’ di seggi in un centrodestra dato per ora al botteghino come sicuro vincitore.

Quanta confusione

Maurizio Lupi, di Noi con l’Italia, rivendica di aver sempre sostenuto il premier con lealtà: «Ma ora si rischiava un Vietnam continuo». Non è chiaro nell’esempio chi fosse il generale Giap, guida delle forze del Nord, e chi il generale americano William Westmoreland. Ma in questa campagna elettorale tante cose, più del solito, sembrano destinate a confondersi. Giancarlo Giorgetti, il numero due leghista, sensibile alle richieste nordiste di stabilità del governo, riconosce di essere stato battuto dal suo leader, che se uno è leader un motivo ci sarà: «Non rinnegherò mai Draghi, ma capisco e non rinnego il mio partito». Giovanni Toti, capo di Cambiamo, tra i più convinti della necessità di un centro draghiano, è pur sempre assediato dalle sirene di Lega e Fratelli d’Italia, che sostengono la giunta di cui è presidente in Liguria. Luigi Brugnaro, di Coraggio Italia, si era appellato a Draghi «da cittadino e da sindaco» di Venezia: «Presidente, abbiamo bisogno di lei», e ora aspetta come tanti il fluire degli eventi.

Un bel guazzabuglio

Gelmini, Brunetta e Carfagna sono espliciti nel giudizio politico, assolutamente con Draghi e delusi da Silvio Berlusconi che non riconoscono più, ma è troppo presto perché sappiano già cosa fare ora.
Insomma un bel guazzabuglio, tra draghiani ferventi, draghisti interessati e draghiani immaginari. Come gioco dell’estate anche più intrigato di un quesito con la Susy, sempre che si trovi qualcuno disposto a giocarlo.

22 luglio 2022 (modifica il 22 luglio 2022 | 22:49)

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, 2022-07-22 21:02:00, Un po’ tutti adesso rivendicano di averlo sostenuto con lealtà. Anche chi ha contribuito a determinarne la caduta, Roberto Gressi

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