Vittorio Gassman: «Incontrai Maria Callas, voleva fare Lady Macbeth senza cantare»

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di Vittorio Gassman

Nel gennaio 1984, nella rubrica “Taccuini segreti”, l’attore scriveva sul Corriere: «A Firenze abbiamo salutato l’anno nuovo, tutti insieme come un’orda… In Bottega studia (sic) mio figlio Alessandro. Per la prima volta l’ho visto con dei libri in mano, gli altri insegnanti mi dicono che è puntuale e non fa casino. Jacopo invece per ora è sull’epica»

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dall’Archivio storico del Corriere vi proponiamo questo intervento di Vittorio Gassman ripubblicato sul numero di 7 in edicola il 15 luglio

14 gennaio 1984


A Firenze – tappa che ha preceduto Roma – ho saldato il conto aperto da sei mesi per Macbeth, che lì doveva nascere e che fu bloccato dalle mie costole fratturate. Ho tirato un respiro e mi sono goduto i 24 milioni di media serale al Teatro Comunale, pagandoli naturalmente con la necessaria iperproiezione della voce in un teatro nato soprattutto per la lirica.

Coi compagni di lavoro è venuto spontaneo ridiscorrere del Macbeth verdiano che – come, se non quanto, l’ Otello – ricupera in alcuni snodi le intuizioni essenziali del teatro shakespeariano. Sarebbe stato bello fare, come progettato con Riccardo Muti, i due Macbeth nel cortile severo di Pitti.

Delle due opere parlai a lungo, in un’estate a Ischia, con Maria Callas; era tentata dall’idea di recitare Macbeth in prosa, e certamente la Lady resta fra le punte alte del suo repertorio. «Cantare senza cantare» dice Verdi sullo spartito; o addirittura indica, con un paradosso illuminante, che il ruolo va cantato con la voce «imbruttita», spezzata nell’arco melodico dai sussulti del dramma interno, in quella zona misteriosa in cui voce cantata e voce recitata tentano il connubio. Mi sembra di poter dire che con Annamaria Guarnieri ci siamo prefissi – secondo un iter rovesciato – qualcosa di profondamente analogo.

Anche a Firenze abbiamo salutato l’anno nuovo, tutti insieme come un’orda a mangiare e bere e fare i giochini, come è fatale e giusto che avvenga dopo quattro mesi di tournée, quando la Compagnia si fa un po’ famiglia o tribù, con il bene e il male che ne possono derivare.

Il bene? Un affiatamento consolidato, da squadra di calcio che si passa palla senza bisogno di guardarsi; una complicità nell’uso degli stilemi fissati; e il gusto un po’ fanciullesco (l’attore è un bambino perenne, dice Brook) di sapere se anche stasera abbiamo l’incasso più alto, che borderò ha fatto Tizio o Caio a Milano o a Ravenna.

Il male? La sottile insidia del ruolo «già saputo», la difficoltà antica del recitare senza recitare, stupirsi di come la vicenda fin troppo nota si possa ancora una volta srotolare allo stato di nascenza.

Ho fatto un’altra piccola verifica statistica: all’inizio di una stagione, molti attori hanno difficoltà a pronunciare tonicamente le ultime sillabe delle parole. Questa difficoltà, che è tecnica e rimonta alla struttura della lingua italiana straricca di parole piane, si trasforma spesso a metà stagione in una difficoltà psicologica: un eccesso di fiducia nel discorso ormai usurato dalle repliche, che tende a togliere consistenza alle sillabe iniziali.

Bevendo e magnando come bufali dopo lo spettacolo (corollario obbligato del mestiere, come ricupera sennò un attore quel paio di chili che un ruolo faticoso gli fa perdere ogni sera?), l’aria conviviale induce ai giochi. I nostri sono il «Bum» – che ho platealmente divulgato nel recente Blitz di Minà a Viareggio; il «Capolimone», discendenza più acutamente glottologica del glorioso «Cucuzzaro» («Capolimone», per giustizia distributiva, andrà quindi introdotto nel prossimo incontro In-domenicale con l’amico Baudo); i «Cognomi»; la «Banana»; il «Sette rosso»; e qualche altro residuato delle lucidità salottiere anni ‘60 e ‘70.

(…) Gli scacchi, gioco di strategia conflittuale nel quale cercano soluzione le antinomie dell’emozionalità e del raziocinio (gioco quindi squisitamente teatrale); gli scacchi, dicevo, piacevano anche a Memo Benassi, che introdusse un incongruo ma eccitante accenno di partita nell’ Essere o non essere di un suo Amleto.

Giocava senza i pezzi, naturalmente; ma in una recita a cui assistei (Cremona, forse, o Brescia) materializzò la gag con una scacchiera autentica; e io trovai confermata la natura demoniaca e dionisiaca, puramente schizoide, del suo essere attore in un dettaglio che mi colpì: muoveva soltanto il re, e gli faceva eseguire i movimenti del cavallo.

A Firenze ho frequentato per pochi giorni la Bottega Teatrale, al termine del corso di Paolo Giuranna e all’inizio di quello diretto da Alvaro Piccardi. Ho detto agli allievi, coi quali lavorerò in febbraio e tutto aprile, le solite generalia provocatorie che premetto ogni anno alle mie esercitazioni:

a) Il talento, o ce l’avete o non ce l’avete, nessuno ve l’insegnerà, io tantomeno. Ma una certa ginnastica si può fare utilmente, insieme. Se da quadrati diventerete tondi, se capirete l’importanza di dare ad ogni espressione gli spazi «consecutivi» dell’inizio, dello sviluppo e della fine, se almeno accetterete l’ipotesi di respirare coi gomiti e ragionare con l’esofago, sapremo di non aver lavorato del tutto invano.

b) Riesploreremo i poeti e in particolare Dante, nel quale si trova la guida più esplicita e profonda ai misteri dell’1-2-3. Inizio, seguito e fine; erezione, coito ed orgasmo; desis, lusis e catastrofe; nascita, copula e morte… Mettetela come volete, per dire Dante bisogna assimilare il fascino emblematico del ritmo, ternario, imparare a ballarne il valzer.

In Bottega studia (sic) quest’anno mio figlio Alessandro. Per la prima volta l’ho visto con dei libri in mano, gli altri insegnanti mi dicono che è puntuale e non fa casino. Forse il teatro è davvero un’arte metamorfica.

Jacopo invece per il momento è sull’epica, conosce a fondo la trama di Iliade e Odissea; i suoi personaggi preferiti sono Polifemo (l’infanzia è attratta dai mostri, di cui è contropartita angelicata), e Achille l’invulnerabile. Su Penelope è perplesso, non capisce come non riesca a finire di «tessere il golfetto».

Perla della quindicina. Ho ascoltato dichiarazioni di Orsini, che elogia la propria compagnia contro lo strapotere dei mattatori. Umberto, che vuol dire esattamente «mattatori»? Se significa circondarsi di mediocri, ti ricordo che ho attorno eccellenti attori e giovani con cui anche tu hai lavorato.

Se vuol dire snaturare i testi, tagliare le battute altrui o mettere di spalle gli interlocutori, rivolgiti altrove. Con tutta la stima e la simpatia, temo ti secchino non tanto i mattatori quanto gli incassi dei mattatori. Pace e bene.

21 luglio 2022 (modifica il 21 luglio 2022 | 06:52)

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, 2022-07-21 05:12:00, Nel gennaio 1984, nella rubrica “Taccuini segreti”, l’attore scriveva sul Corriere: «A Firenze abbiamo salutato l’anno nuovo, tutti insieme come un’orda… In Bottega studia (sic) mio figlio Alessandro. Per la prima volta l’ho visto con dei libri in mano, gli altri insegnanti mi dicono che è puntuale e non fa casino. Jacopo invece per ora è sull’epica», Vittorio Gassman

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