Vincenzina Virando morta a Bangkok, fu il primo delitto col plastico della villa

di Federico Ferrero

Il crimine, se ci fu, capitò in Oriente ma la vita della signora partì da Viù, un paesello di mille abitanti nelle valli di Lanzo

La Domenica del Corriere dell’11 novembre 1951 mostra in copertina una scena che, negli anni, sarebbe diventata d’abitudine in televisione: il plastico di una villa, due giudici che lo scrutano, un signore in giacca e cravatta che offre spiegazioni. Era una scena del processo per la morte di Vincenzina Virando, forse il primo delitto a processo sulla stampa più che in tribunale.

Il crimine, se ci fu, capitò a Bangkok ma la vita della signora Virando partì da Viù, un paesello di mille abitanti nelle valli di Lanzo. Vincenzina nacque nel 1913, secondogenita di Ignazio Virando e Carolina Remondini: lui, gioielliere a Torino, poté garantire a Nina un’esistenza agiata e così il promesso sposo della ragazza, Ettore Grande, di dieci anni più anziano di lei, figlio di un docente universitario — Stefano Grande — noto per essere stato tra i fondatori del partito popolare.

Vincenzina ed Ettore si sposarono nell’estate del 1938, quando già lui lavorava come viceconsole in Thailandia. Il 7 agosto, salparono da Venezia alla volta di Bangkok dove li aspettava una casa con servitù e comodità ma, così raccontarono gli amici, non la serenità: alla giovane sposa mancavano la vita italiana, le conoscenze e le abitudini occidentali.

In una lettera agli atti definiva il marito severo e opprimente. Il 23 novembre di quello stesso anno, a Roma arrivò un dispaccio di agenzia: la moglie del diplomatico Grande, Vincenzina, era morta. Il marito l’aveva trovata deceduta e tutto gli fece pensare che Nina si fosse tolta la vita mentre lui si faceva una doccia. La polizia diede credito alla sua versione, la salma venne imbalsamata e rimpatriata, per essere tumulata nella tomba di famiglia a Viù.

Non dello stesso avviso era la famiglia Virando. Riuscì a far riaprire le indagini e diede l’assenso a far riesumare la povera Nina. L’ipotesi, poi sposata dalla magistratura, fu che la donna non potesse essersi sparata tre colpi di pistola alla testa. Anche perché alcuni testimoni sentirono un primo colpo e altri due dopo qualche minuto.

Ettore Grande venne arrestato nel 1939 e, due anni dopo, si aprì il processo per omicidio. Di parere opposto la difesa, secondo cui la donna si era pentita di quelle nozze perché, in realtà, ancora invaghita di un tenente dell’aviazione con il quale aveva stretto una amicizia affettuosa. In aula vennero letti stralci di lettere-diario che la povera Virando scriveva nelle quali, effettivamente, si potevano ravvisare sintomi di gravi disagi.

Così un passo dell’arringa della difesa: «Vincenzina aveva l’altro nel suo cuore, per cui per donarsi a Ettore ha dovuto fare olocausto e sacrificio. […] Ella non vuole un figlio da lui, ha disgusto per quell’uomo che era diventato suo marito. Chiusa, volitiva, ha tenuto entro di sé questo fuoco, ha convocato tutto quanto poteva essere più tormentoso. […] Psicosi, confusione mentale: esiste un limite di sopportazione oltre il quale non si può andare. La lettera del 20 novembre è disillusa, stanca, affranta: “Spesso me lo stringo al petto, il mio cagnolino di stoffa, e gli dico: parlami tu, cagnolino, dimmi qualcosa, perché io divento pazza”».

L’ipotesi dell’omicidio al culmine di una lite venne ritenuta credibile e Grande venne condannato a ventiquattro anni dalla corte d’assise di Torino, nell’aprile 1941. Cinque anni dopo, venne assolto per insufficienza di prove. La Cassazione ordinò un nuovo processo che si svolse in assise a Bologna: Ettore Grande aveva già scontato più di dieci anni di pena quando un luminare della medicina forense, il professor Pier Antonio Gagna, si spese per dimostrare che la vertebra cervicale rotta su cui si basava la condanna del marito non dimostrava alcunché. «L’Accusa dice: Vincenzina non poteva, dopo il colpo che la ferì alla quarta vertebra, spararsene un altro, perché già il midollo spinale era leso in maniera paralizzante o mortale. […] Io ricordo il caso del campione italiano di sci, il torinese Schenone, che si presentò tranquillamente nella clinica diretta dal prof. Uffreduzzi, camminando da sé. Uffreduzzi lo esaminò e quasi non credette ai propri occhi: gli riscontrò una vasta frattura alla settima vertebra […] Dunque anche una lesione al midollo, simile a quella che la povera signora si procurò sparandosi al mento, non è fatalmente mortale né paralizzante. E come si spiega la breccia di sei millimetri nella parte posteriore della quarta vertebra? A Novara, signori della Corte, questa breccia era di due millimetri e un proiettile non ci passava. Tutti i giudici di Novara hanno compiuto con le loro mani la prova diretta sulla vertebra della vittima; e tutti i giudici hanno potuto convincersi che nessun proiettile Browning poteva entrare da quella parte. L’allargamento fino a sei millimetri fu prodotto artificiosamente, durante le operazioni per la perizia di Bologna: e cosi si rafforzò il mito della pallottola alla nuca».

Gagna, secondo cui la ferita alla nuca era da attribuirsi al dente dell’epistrofeo (una tesi che fece storia) convinse i giudici: suicidio. Il caso si chiuse nel 1951 dopo diciannove perizie sul corpo della povera Nina e il particolare, ben riportato in cronaca, del di lei cranio trasportato in una valigia a Bologna per l’ennesima dimostrazione peritale in aula. Grande, però, perse tutto, lavoro e reputazione. Si sposò una seconda volta, divorziò e finì i suoi giorni novantenne, nel 1992, in una casa di cura a Pescara. A Villafranca Piemonte tornò solo da morto. A Viù, la scuola dell’infanzia è intitolata a Vincenzina Virando, anche se nessuno dei sui frequentatori del 2022 sa il perché.

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28 giugno 2022 (modifica il 28 giugno 2022 | 13:25)

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, 2022-06-28 11:25:00, Il crimine, se ci fu, capitò in Oriente ma la vita della signora partì da Viù, un paesello di mille abitanti nelle valli di Lanzo, Federico Ferrero

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