di Eugenio Bruno, Claudio Tucci
Vista con gli occhi della scuola la cartina a colori dell’Italia in vigore da oggi somiglia molto a quella disegnata dal lockdown di un anno fa. Con 6 milioni di studenti, piccoli e grandi, costretti a casa per seguire le lezioni a distanza dei loro docenti. Ma se per i primi la campagna vaccinale sarà comunque limitata, perché al di sotto dei 16 anni non è ancora prevista l’immunizzazione, per i secondi procede a rilento. Venerdì sera marzo risultava infatti vaccinato meno di un terzo del personale scolastico (inteso come insegnanti, Ata e presidi). Precisamente il 32,3 per cento.
A questa stima si arriva incrociando l’aggiornamento quotidiano dell’Agenzia del farmaco con gli organici della scuola. Fatta la premessa che il dato reale potrebbe in realtà essere anche più basso, sia perché la nostra platea potenziale non include i quasi 100mila docenti di sostegno in deroga, sia perché alcune regioni potrebbero aver incluso nelle loro statistiche anche il personale universitario o quello dei servizi educativi comunali, dai numeri emerge la solita Italia a macchia di leopardo che abbiamo imparato a conoscere in questo primo anno di pandemia. Con alcuni territori che hanno somministrato almeno una dose a più del 50% dei prof e altre ancora ferme a percentuali da prefisso telefonico.
Il quadro ambivalente che ne viene fuori va oltre la tradizionale dialettica Nord-Sud. Subito dopo un’accoppiata di regioni meridionali praticamente ferme al palo (Calabria e Sardegna) in coda ne troviamo infatti due settentrionali: la Liguria, che alle 19.30 del 5 marzo aveva vaccinato solo 156 addetti al lavoro nelle scuole (lo 0,7% del totale) e, soprattutto, la Lombardia con 1.505, pari all’1 per cento. I motivi del ritardo lombardo li conosciamo e hanno riempito le pagine dei giornali nelle scorse settimane, a cominciare dalla scelta di dare priorità agli atenei rispetto alle scuole. Opposto il panorama offerto invece dalla Toscana con il 68,5% di personale che ha ricevuto almeno la prima dose. Così come dalla Puglia (62,2%), dall’Umbria e dalla Campania. Tutte stabilmente al di sopra del 50 per cento.
Alla base del ritardo, al di là delle scelte politico-sanitarie dei singoli governatori, ci sarebbero anche due nodi strutturali. Da un lato, l’impossibilità di somministrare agli over 65 le fiale di Astrazeneca (il vaccino che si è scelto di usare in maniera quasi esclusiva per la scuola al di sotto di quella soglia d’età e in assenza di patologia). Dall’altro, l’esclusione da molti piani vaccinali dei docenti fuori regione. Ma se sul primo punto la soluzione appare imminente con lo sblocco di Astrazeneca anche sopra i 65 anni, sul secondo manca una linea chiara. Ed è per questo che i sindacati nei giorni scorsi hanno investito della questione il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi. Confidando nella sua moral suasion. Nella consapevolezza che non approfittare di una chiusura delle scuole così vasta per vaccinare su larga scala chi ci lavora rischia di compromettere anche l’ultimo scorcio di anno scolastico e condannare così gli alunni a un ulteriore supplemento di Dad.