«The Princess», il documentario su Diana. «Lei come Greta Garbo, diva del cinema muto. La sua vita ci interroga»

di Enrica Roddolo

Ed Perkins, regista già candidato all’Oscar, autore del documentario «The Princess» premiato a Sundance: «Lady D, una tela bianca sulla quale proiettiamo le nostre paure»

Dalla nostra inviata
Londra – «La regina? Sappiamo meno di Elisabetta, in scena da 70 anni, di quanto sapevamo di Diana morta a soli 36 anni — dice al Corriere il regista britannico Ed Perkins, già candidato all’Oscar per il documentario «Black Sheep» sull’odio razziale a Londra —. E della regina va detto che ha fatto un sorprendente lavoro perché essere Royal è difficile, con quello scrutinio ossessivo, l’esposizione costante…». Un’ossessione che si coglie nell’aria in «The Princess» il documentario già premiato al Sundance Festival, e dedicato a Diana Spencer che l’1 luglio compirebbe 61 anni, senza la tragedia dell’incidente di 25 anni fa. Un documentario che nell’anno di Elisabetta, anche se parla di Diana, racconta il rapporto (irrisolto) di un Paese con la monarchia. «Non è un documentario storico ma qualcosa di contemporaneo specie in questo anno di celebrazioni per Elisabetta II — continua Perkins —. Perché la morte di Diana ha tracciato una linea nella relazione tra la gente e la monarchia. Questo film è su Diana, ma attraverso Diana è sulla nostra percezione della Corona, e dunque sul dibattito sotto traccia che corre nella società britannica di oggi».
Ovvero?
«Vogliamo la nostra monarchia come noi? Gente normale, trasparente? O vogliamo preservare quel senso di mistero e di magico? Se la vogliamo diversa allora è facile capire perché i Windsor sembrino slegati dal nostro tempo. Al contrario se sono esattamente come noi dobbiamo rassegnarci a che siano uguali a noi anche per tragedie e traumi di famiglia. E questo può portarci a considerarli come una soap opera», continua Perkins scelto con «The Princess» dal Biografilm di Bologna diretto da Massimo Benvegnù per l’anteprima internazionale della 18ma edizione del festival.
Quotidianità e magia: la monarchia sta in mezzo?
«Sta cercando di negoziare tra queste due posizioni: non so quale sia il giusto equilibrio ma è il dibattito in corso in questo Giubileo di Platino a Londra che se è dedicato alla regina, vede almeno nel Regno Unito la principessa Diana ancora in prima pagina».
Il documentario accende i riflettori su Diana ma è come se tenesse un faro sulla monarchia?
«Esatto, è stato pensato in modo che permettesse di “girare la camera su di noi”, sulla nostra relazione con la monarchia, con la nostra storia, anche con le celebrity. Non abbiamo ancora fatto i conti con tutto ciò. Ci sono stati eventi accaduti nella Royal family negli ultimi anni in cui si coglieva l’eco della storia di Diana».
Sta pensando a Harry e Meghan?
«Sì, ci sono paralleli con cosa accadde con Diana (e i media) che si riflettono nell’oggi. E quel che ha detto Harry dopo essersi trasferito oltreoceano credo faccia pensare: ha temuto che quanto accadde alla madre avrebbe potuto succedere alla moglie, alla sua famiglia».
E cosa avrebbe pensato Diana, o che ruolo avrebbe avuto Diana, nella Londra di questo Giubileo?
«Non credo nessuno sia mai riuscito a capire quale ruolo nella sua vita avrebbe interpretato con una serie di se, se…una cosa interessante che ho notato è piuttosto che normalmente dopo due anni che lavori su questo tipo di documentario alla fine dopo aver studiato tanto materiale d’archivio dopo aver parlato con molte persone che hanno avuto a che fare con la persona, finisci per conoscerla benissimo la tua protagonista. Invece con Diana ho la sensazione di non aver capito ancora adesso Diana, la persona interiore. Resta qualcosa di enigmatico in lei. Di più, forse è stata e continua ad essere una tela bianca sulla quale noi proiettiamo le nostre paure. Ma è anche uno specchio che riflette la nostra immagine, il nostro essere. Solo una relazione così profonda spiega la reazione davvero senza precedenti di quella settimana dopo la sua morte».
Che cosa ricorda di quando Diana morì?
«Avevo 11 anni quando Diana morì, ricordo in modo molto chiaro quel momento. E non ci sono molti altri momenti come quello che ricordi così chiaramente a quell’età. Con i miei genitori molto colpiti emotivamente dalla sua morte. Guardavo la tv e vedevo centinaia di migliaia di adulti e bambini scendere per strada a Londra e piangere per lei. E’ complesso da capire, un’enorme reazione. Non ero abbastanza grande per capire, ero confuso. Non ero triste ma mi sentivo frastornato da questa reazione della gente: perché famiglie di ogni estrazione sociale reagivano in quel modo? Come se piangessero una persona di famiglia».
Come ha lavorato su questo documentario per Lightbox?
«Con Simon Chinn (produttore premio Oscar nel 2009 per Man on Wire e nel 2013 per Searching for Sugar Man, ndr.)pensiamo prima che storia vogliamo raccontare? Con quale prospettiva la vogliamo raccontare? E poi ci chiediamo quale forma ci permetterà di servire al meglio la prospettiva che abbiamo in mente. Così abbiamo capito che attingere solo a materiale d’archivio senza nessuna voce narrante, nessuna interpretazione, ci permetteva di affrontare Diana in modo nuovo. Dunque ho letto tutto quanto è stato scritto su lei, ho parlato con persone che l’hanno conosciuta o sono venute in contatto con lei. E poi ho cercato fonti archivistiche internazionali ma anche regionali qui nel Regno Unito. E alla fine abbiamo individuato migliaia di materiali, trattandosi della persona più filmata e fotografata per due decadi. Ho guardato ogni giorno 8-12 ore di archivio grezzo cercando quei “subtle little moments”, quei piccoli momenti rivelatori della vera principessa».
Chi è Diana, allora?
«Diana è come una diva del cinema muto. Come Greta Garbo, con il suo body language è capace di proiettare una storia, con il capo inclinato, un sorriso… ha questa straordinaria abilità di farci capire i suoi sentimenti. E il film cerca di catturare quel body language, insomma di catturare i sottotitoli dei suoi gesti».
Gli Spencer, i Windsor: sono stati coinvolti nel suo progetto?
«Sanno del progetto ma non sono stati coinvolti. E sono consapevole che per molti la storia di Diana è una storia pubblica, ma per William e Harry questa è una storia sulla loro madre e capisco le sensibilità coinvolta. E non è una responsabilità che ho preso a cuor leggero. Dunque ho raccontato la storia in modo che sia percepita da loro come giusta ed equilibrata. E’ una storia complessa e difficile. E spero che davvero William e Harry lo capiscano».
Harry che con Netflix è entrato pure lui nel mondo del cinema, cosa si aspetta da addetto ai lavori?
«Sono curioso di vedere i suoi film, sarà affascinante. E penso sia stato interessante girare questo documentario nel momento in cui la storia di Harry e Meghan è stata in prima pagina, mi ha ricordato quei giorni in cui Diana era viva e c’era una constant conversation su di lei, era il tema di dibattito al bar, a casa. E la gente aveva posizioni molto chiare e nette sulla monarchia e Diana… e con Harry e Meghan è stato lo stesso. Il film cerca anche di riportare a galla tutto quel dibattito».
Incidente o complotto?
«La mia idea è che si sia trattato di un tragico incidente. Sono giunto alla conclusione che lei sia stata molto normale in molti modi, e altrettanto straordinaria. Ordinaria: più scavi e più vedi che è fallibile, fa errori, è vulnerabile come non abbiamo visto spesso gente pubblica. E al tempo stesso è stata straordinaria per il modo in cui interagiva con la gente, come metteva a suo agio le persone. Aveva una straordinaria intelligenza emotiva. I suoi piccoli gesti erano capaci di cambiare la vita della gente. E i grandi gesti erano in grado di lasciare il segno, come la sua campagna contro le mine antiuomo, per i malati di Hiv. E la gente aveva la sensazione di avere una connection con lei. Si sentiva collegata o responsabile per quanto era accaduto. E questo spiega anche perché la nostra relazione con la storia sia stata così complicata».
Una storia iniziata con un Royal wedding da favola. Con un finale tragico.
«Che è infatti l’altro punto: con Diana abbiamo visto diventare realtà il mito senza tempo delle favole, davanti ai nostri occhi, con il suo Royal wedding. Un mito millenario, ma vederlo diventare realtà ha avuto un impatto molto forte su di noi».
E cosa pensano le nuove generazioni di Diana?
«Ho figli piccoli e mi rendo conto che per generazioni che sono nate dopo Diana lei è quella della serie The Crown. E spero che il mio lavoro senza interpretazioni, mediazioni, offra a ciascuno la possibilità di farsi la propria idea di Diana».
Venticinque anni dopo la sua morte questo documentario distribuito in Italia da I Wonder Pictures (già opzionato da Sky Documentaries e NOW) , arriva dopo molti film, l’ultimo «Spencer». Perché?
«Perché gli anniversari attirano sempre e sì ci sono stati diversi film ma ciascuno ha dato voce a Diana interpretando, cercando di immedesimarsi nella mente di Diana insomma facendo un lavoro di speculazione, di immaginazione. Mentre questo lavoro mette a disposizione di chi guarda solo filmati da cui trarre ciascuno la propria conclusione. Ma c’è del resto per questo crescendo di attenzione per la principessa: è che continuiamo ad essere sedotti da questa storia, da questo personaggio».

11 giugno 2022 (modifica il 11 giugno 2022 | 13:06)

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, 2022-06-11 11:32:00, Ed Perkins, regista già candidato all’Oscar, autore del documentario «The Princess» premiato a Sundance: «Lady D, una tela bianca sulla quale proiettiamo le nostre paure», Enrica Roddolo

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