Si sono conclusi gli esami di Stato e sorge spontaneo il tentativo di fare un bilancio, non tanto degli obiettivi raggiunti dagli alunni, quanto della “consistenza” della maturità che essi dovrebbero aver acquisito dopo un lungo percorso scolastico durato ben tredici anni.
Piccola premessa: lungi dall’alimentare un dibattito sulla validità o meno degli esami di Stato, non si può non prendere atto della solennità di questa tappa per gli alunni, che esattamente giorno 21 giugno hanno dato il primo colpo d’ali del loro volo, il volo della vita adulta. Insomma, volendo utilizzare l’eloquente immagine di J. Conrad, proprio adesso i nostri ragazzi scorgono la linea d’ombra dell’età adulta, periodo in cui le scelte hanno un peso. Se pensiamo alla parola “crisi” nella sua accezione autentica (il verbo greco krino significa, per l’appunto, separare), possiamo vedere in questi maturandi un vero momento “critico”, di svolta. Nulla di male, dunque, se le loro tenere espressioni tradiscono ansia, nervosismo e tensione.
Fatta questa premessa, vorrei tornare al punto centrale della mia riflessione: quale idea abbiamo noi adulti dei nostri ragazzi? Non nascondo che lì per lì, quando mi sono posto la domanda, la mia mente ha creato la bizzarra immagine di stuoli di moralizzatori pronti a criticare gli alunni perché fannulloni, poco propensi allo studio e allo spirito di sacrificio. A queste voci, poi, si aggiunge chi mi spiattella il caso di quei ragazzi che con una Lamborghini hanno causato un incidente, provocando la morte di un bimbo. Non entro nel merito. Chi ha sbagliato si prenda le proprie responsabilità, giovane o non giovane che sia. Tuttavia, non posso non condividere con il lettore un’interessante reminiscenza scolastica di una poesia dei Carmina Burana, della quale mi limito a proporre solo i versi iniziali: Un tempo fiorivano gli studi, ora annoiano soltanto; a lungo il sapere è stato importante, ora vale di più l’ozio. Ormai tra i giovani la furbizia si insinua precocemente […]. Dalla lettura di questi versi, che ovviamente andrebbero contestualizzati nel filone della poesia goliardica medievale, balza in evidenza la classica dialettica tra ieri e oggi, un “disco rotto” che evoca le parole dei nostri nonni e di tutti coloro che provano un’atavica soddisfazione nel tessere le lodi del passato e nel deturpare le vergogne del presente.
Eppure la mia professione mi ha insegnato a sospendere sempre il giudizio e a dedicare più tempo ad un’operazione non semplice e che consiste nello scrutare gli alunni, i loro stili e processi di apprendimento e, soprattutto, le emozioni. L’esperienza di commissario esterno, per di più, mi ha permesso di osservare gli alunni da una posizione distaccata, aliena dal filtro affettivo. Quando rientro a casa dopo una lunga e intensa giornata di esami orali, continuo a pensare a quei ragazzi che ho appena esaminato, alle loro presentazioni, alla loro tensione, alle ansie, ai progetti. E tali pensieri tendono a sedimentarsi costantemente su un’idea, che da ipotesi iniziale si trasforma in una constatazione di fatto, avulsa da condizionamenti affettivi o da pregiudizi di qualsivoglia natura: probabilmente fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, tuttavia gli alunni che finora ho incontrato mi hanno trasmesso prevalentemente l’immagine di una gioventù per niente pigra o allo sbando ma desiderosa di vita. Tale desiderio, si badi, non è privo di tribolazioni, difficoltà e fragilità, ma indubbiamente è una tensione costante di crescita, di speranza e miglioramento, e questo pensiero è uno sprazzo di luce soprattutto per la scuola e le famiglie.
Non lasciamoci trascinare, dunque, dal coro di chi, con pressapochismo, nutre poca stima nei nostri ragazzi ma, al contrario, cerchiamo sempre di accompagnarli attraverso una “visione” che superi le logiche della valutazione degli apprendimenti e che abbia il coraggio di scommettere sul futuro di un alunno, a prescindere dalla sola bravura scolastica. Guardiamo quindi anche alle altre forme di intelligenza (quali la pazienza, la tenacia, la curiosità, la creatività) in modo tale da poter smentire quanto scritto da Dostoevskij ne “L’idiota”, e cioè che “gli inventori e i geni, quasi sempre, all’inizio della loro carriera (e molto spesso anche alla fine), non furono tenuti dalla società se non in conto di sciocchi”.
Carlo Giallombardo
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