Marmolada, il precedente dei 300 sepolti all’interno della Città di Ghiaccio

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di Ferruccio Pinotti

Nel 1916, durante la prima guerra mondiale, una massa nevosa stimata in più di duecentomila metri cubi si staccò da Punta Rocca e si abbatté sul Gran Poz: 300 soldati furono travolti. Lo storico Simonetti Federspiel: «In montagna il rischio è ineliminabile»

Esiste un precedente storico terribile a quello della Marmolada: i 300 soldati che durante la prima guerra mondiale furono travolti da un’enorme valanga di neve. Sul versante settentrionale della Marmolada si trova infatti un vasto pianoro che durante la Grande Guerra ospitava un villaggio di baracche che rappresentava il più importante centro di smistamento dei rifornimenti destinati alle postazioni austriache in quota sulla in Marmolada e che giungevano tramite teleferica da Pian Trevisan. La posizione appariva sicura ai comandi austriaci in quanto defilata dal tiro diretto degli italiani. Ma rimasero inascoltati i suggerimenti del Referente Alpino, l’ingegner Leo Handl, l’ideatore della Città del Ghiaccio sulla Marmolada.

La creazione della “Eisstadt”

Michele Simonetti Federpiel, storico della Grande Guerra, creatore della bellissima Mostra permanente “La Gran Vera” a Moena di Fassa e autore del volume “1914-1918 La Gran Vera”, racconta: «Per cogliere di sorpresa il nemico e conquistare anche solo qualche metro sulla linea di difesa, nella Grande Guerra i soldati di entrambe le parti con i loro generali avevano impiegato i mezzi e le armi più innovative per l’epoca, ricorrendo anche alle strategie più ingegnose. Una di queste fu certamente la Eisstadt, o “Città di Ghiaccio”, ideata nel 1916 dal tenente e ingegnere austriaco Leo Handl ma progettata qualche mese più tardi. Si trattava di uno straordinario sistema di gallerie e cunicoli scavati nei ghiacci per ovviare al pericolo dei camminamenti esterni, troppo esposti al tiro delle mitragliatrici e alle valanghe. L’idea di realizzare una Città di Ghiaccio nacque una notte del maggio del 1916 quando Handl con altri sei dell’armata austriaca, impegnato a difendere il Ghiacciaio della Marmolada, per sottrarsi al fuoco delle truppe italiane appostate lungo la Cresta di Seratura, si calò in un crepaccio. In quell’ampia fenditura, il tenente-ingegnere appassionato di alpinismo scoprì con stupore di poter sfruttare lo spazio sotto la superficie per avanzare più speditamente verso le postazioni nemiche restando al riparo dei proiettili e delle avversità atmosferiche».

Vivere e dormire tra i cunicoli di ghiaccio

Dure, ma sopportabili le condizioni di vita nella Città del Ghiaccio. Federspiel spiega: «Le temperature all’interno delle caverne erano comprese tra 0 e 5° C, assai più tollerabili rispetto al freddo pungente che in inverno arrivava a toccare anche i -30°C. Handl così iniziò a progettare una vera e propria fortezza di corridoi sviluppatasi fino a 12 km, ad una profondità di 60 metri, dove poter mangiare, dormire, depositare le munizioni e far riposare anche 200 i soldati. Sebbene fosse molto difficile vivere in quella Città sotterranea tra l’umidità e la paura di restare inghiottiti dai ghiacci, l’idea di Handl permise di salvare molte vite umane e restò una vera roccaforte fino a quando, con la sconfitta di Caporetto e il conseguente spostamento a sud del fronte, la Città fu abbandonata. Soltanto lo scioglimento del Ghiacciaio della Marmolada ha riportato in superficie i tanti reperti, utensili, oggetti di quel periodo che oggi sono conservati nel Museo della Marmolada, il più alto d’Europa, situato a quasi 3.000 metri di altitudine. Ma prima che tutto questo avvenisse scoppiò, nel 1916, il dramma»

La tragedia

Anche nel 1916 si crearono infatti condizioni climatiche anomale. Fu l’inverno più nevoso di quel secolo. Lo storico della Grande Guerra racconta: «Le abbondantissime nevicate che fin dall’autunno del 1916 interessarono tutto l’arco alpino fecero crescere in maniera preoccupante il manto nevoso, tanto che il capitano austriaco Leo Handl propose di trasferire altrove all’interno della “Città di Ghiaccio” la guarnigione dislocata al Gran Poz. Le baracche al Gran Poz erano a rischio valanghe, andavano spostate, disse l’ingegnere. Tale richiesta fu, però, respinta dai comandi austriaci. Il 12 dicembre 1916, dopo una settimana di nevicate copiose, la temperatura iniziò a crescere ed iniziò a piovere; all’alba una massa nevosa stimata in più di duecentomila metri cubi si staccò da Punta Rocca e si abbatté su Gran Poz, seppellendo nel sonno trecento soldati. Lo spostamento d’aria fu così violento da scagliare una baracca ed i suoi occupanti a più di un chilometro di distanza. I soccorritori riuscirono ad estrarre vivi cinquanta uomini, gli ultimi dei quali a ben cinque giorni dall’evento. Quella del 2 luglio, quindi non è purtroppo l’unica valanga che ha causato delle morti in Marmolada. Nel 1916, infatti, nel pieno della Prima Guerra Mondiale, quei trecento soldati austriaci vennero seppelliti e uccisi da un’enorme massa di neve che si staccò improvvisamente dai costoni della montagna, per finire sul villaggio della riserva al Gran Poz».

Il valore della memoria

Chi vuole rendere omaggio ale vittime del 2 luglio può farlo riconnettendosi idealmente alle 300 vittime del 1916 attraverso un bellissimo percorso a piedi. Ovviamente chi lo intraprende, data la recente tragedia, dovrà accertarsi presso gli uffici locali competenti, che pur non essendo contiguo all’area del disastro non sia sottoposto in questi gioni a limitazioni o divieti. Simonetti Federspiel lo illustra: «Dal Museo della Grande Guerra di Passo Fedaia, superata la stazione della bidonvia per Pian dei Fiacconi si imbocca il sentiero n° 619 e ci si dirige verso il vasto ripiano boschivo della “ciamorciàa”. Si percorre una stretta gola diffusamente incisa dai fenomeni di erosione dell’acqua di disgelo (le cosiddette “marmitte dei giganti”). Si prosegue tenendosi sulla destra fino a raggiungere un altro ripiano erboso dove sono ancora evidenti i resti dei baraccamenti. In particolare si trova una cucina in muratura in buono stato di conservazione e i basamenti dei baraccamento con i loro ancoraggi. Si prosegue su tracce di sentiero militare fino a raggiungere alcune cenge attrezzate con fune metallica e passerelle di legno fino a raggiungere la forcella del Col de Bous. È un percorso tranquillo e non esposto a crolli e valanghe, ma in questo periodo serve comunque prudenza».

L’inevitabilità del rischio in montagna

Conclude Simonetti Federspiel, esperto storico e lui stesso alpinista: «La montagna oggi come allora è più forte dell’uomo, chi la affronta, seriamente, consce il suo volto crudele, sa di affrontare l’immenso e l’imponderabile. Voler controllare anche questo con leggi e regolamenti toglie la libertà all’uomo e all’alpinista di vivere la sua avventura. Chi parte sa di poter non rientrare e questo rischio è ben insito nel cuore di chi affronta la gioia della salita, o sa di poter andare incontro alla morte. Inutili le inchieste – contro chi? – è una scelta, quella di salire. La montagna non è una strada asfaltata piena di curve con i segnali e non potrà mai esserlo perche i segnali saranno spazzati via dalla natura. Altra cosa sono quei 300 ragazzi mandati a combattere, obbligati a combattere e finiti sotto la coltre nevosa per sempre».

5 luglio 2022 (modifica il 5 luglio 2022 | 22:00)

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, 2022-07-05 20:00:00, Nel 1916, durante la prima guerra mondiale, una massa nevosa stimata in più di duecentomila metri cubi si staccò da Punta Rocca e si abbatté sul Gran Poz: 300 soldati furono travolti. Lo storico Simonetti Federspiel: «In montagna il rischio è ineliminabile», Ferruccio Pinotti

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