La sinistra nel deserto dei tartari

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Il Pd, cioè l’unico partito di stampo novecentesco rimasto in città, finisce ancora una volta nei titoli di testa. Oggi tiene banco l’inchiesta giudiziaria che ne ha investito alcuni esponenti nazionali e locali per una serie di appalti relativi al Rione Terra (sebbene, com’è ovvio, convenga attendere lo sviluppo delle indagini e un’eventuale sentenza). Ma sono molte le vicende poco commendevoli che investono quotidianamente quel partito, le faide intestine che gli impediscono perfino di trovare un nome condiviso per la segreteria regionale, le traversie di società pubbliche che affondano tra spese allegre e deficit insostenibili o le innumerevoli polemiche riguardanti Vincenzo De Luca. Il quale, sebbene ostenti il piglio dell’autocrate, resta pur sempre un uomo del Pd. Viene da chiedersi che fine abbia mai fatto quel che dovrebbe essere il glorioso risultato della fusione tra «il meglio» del vecchio Pci e «il meglio» della vecchia sinistra Dc. E che fine abbiano fatto i suoi elettori. Di certo, a volerne considerare numeri e composizione sociologica, l’attuale Pd sembra avere assai poco da spartire con quel che era stata nel secondo Novecento la cosiddetta sinistra di classe, il partito degli operai dell’Ilva, il riferimento degli intellettuali alla Macchiaroli, il popolo che nel 1975 aveva portato trionfalmente Maurizio Valenzi a palazzo San Giacomo. A quei tempi, peraltro, l’offerta politica era ampia, la Dc proponeva una gamma di uomini e programmi, i socialisti erano in campo, i liberali resistevano, c’era la destra sommersa di Almirante. Ma poi, chiuse le fabbriche, mandato in soffitta il compromesso storico, affogata la «prima Repubblica» dallo tsunami giudiziario, tutto sarebbe cambiato. Quello di Bassolino non era più un partito di classe, la classe non c’era più. Era un partito personale e, se mai, era un partito di opinione. Ceti medi e intellighentia lo accolsero a braccia aperte e anzi, talvolta, con un certo conformismo. Salirono sul carro gli “interessi”, imprenditori, professionisti. La sinistra visse forse la sua stagione più fortunata. Ma per certi versi fu improvvida. Bassolino non fu capace di selezionare una classe dirigente che potesse succedergli, non riuscì a ramificare il consenso dei ceti colti, nè seppe motivare con adeguate politiche le periferie dell’emarginazione. Il suo fu un modello vincente, ma già fragile. Si trattava di una sinistra finalmente edulcorata sul piano ideologico e tuttavia incapace della profonda innovazione che chiedevano i tempi. Che erano ormai i tempi del web. Le raffinate istallazioni di piazza Plebiscito non bastarono a dare radici e futuro al bassolinismo. La stessa fine politica del leader, nei mesi della crisi dei rifiuti, segnalava la persistenza di una società metropolitana vecchia e vischiosa, che la politica non era riuscita a intaccare. Quella crisi svelò un groviglio di interessi localistici, infiltrazioni malavitose, scivolate ambientalistiche, timidezze tecnologiche. All’atto pratico, la sinistra si dimostrò poco coraggiosa, fu spaventata dai «comitati di lotta» contro le discariche, dovette venirle in soccorso Berlusconi con l’esercito, fu salvata da un termovalorizzatore che non aveva mai osato rivendicare. Venne alla luce, in quella drammatica congiuntura, un’opinione pubblica che al riformismo preferiva il richiamo demagogico della piazza. E difatti, nel giro di qualche anno, la sinistra di opinione diventò sinistra populista. Mentre un partito orfano del suo leader carismatico e privo di una successione prêt-à-porter si consumava in lotte intestine di rara incongruenza e infine nelle mitiche «primarie con i brogli», fatalmente le stanze delle sezioni si svuotavano. E si svuotava il consenso. Il popolo di sinistra iniziò a disertare le urne o, peggio, si dimostrò sensibile alle sirene del populismo. Portò a palazzo San Giacomo un sindaco che diceva di voler «scassare tutto». E cinque anni dopo lo elesse per la seconda volta, sebbene ne fosse ormai chiara l’estrema inefficienza amministrativa. Fu un vero tradimento delle proprie radici migliori e, al tempo stesso, un rivangare la peggiore demagogia comunista e democristiana (perché nel frattempo le «due anime» avevano dato vita all’ircocervo democrat). Fu cioè un miscuglio di mutazione genetica e di regressione. Al pauroso dimagrimento elettorale della sinistra, del resto, non corrispose soltanto il doppio trionfo di de Magistris, ma anche l’entusiastica accoglienza in città del grillismo. Napoli fu la culla del grillismo. Lo sommerse di voti. E quanti voti di sinistra finirono nella sporta del M5s? Vincenzo De Luca comparve in queste circostanze. A lui perciò non può darsi la colpa di aver mandato all’inferno la sinistra. Ma di certo con De Luca il cerchio è sembrato chiudersi. Il presidente della Campania non ha neppure dovuto fare i conti con il proprio partito, che nel 2010 era già distrutto. Ha semplicemente messo assieme i pezzi di una coalizione di piccoli e grandi interessi che non aveva più alcuna connotazione politica. Pezzi di sinistra, di centro, di destra. Micronotabili di città e di provincia. Un collage di portatori di voti. Un consenso che pescava nel serbatoio del populismo, tra quanti apprezzavano i proclami roboanti del governatore, tra i sempiterni adoratori dell’uomo forte, tra i creduloni del trumpiano «Campania first». Ma che raccoglieva il consenso anche di quanti condividevano le sue intemerate contro l’inefficienza amministrativa, contro le pastoie procedurali, contro i pubblici ministeri. Un misto di populismo, laissez faire e autocrazia, se mai esistesse una pozione del genere. E la sinistra (o quel che ne era rimasto)? Votò De Luca, come aveva votato de Magistris e Grillo. Oppure, ancora una volta, si astenne. Ma fu difficile perfino distinguerla, all’interno del cocktail apolitico che De Luca aveva offerto agli elettori. Era deluchismo, non più sinistra. Era abile comunicazione social, come hanno puntualmente documentato gli studi di Domenico Giordano. Il governatore aveva preso in gestione una fetta di opinione pubblica che appariva, oltre che ridotta ai minimi termini, svuotata di senso politico, distratta, passiva. A Napoli il Pd si presentò come la nomenklatura delle seconde file, donne e uomini che erano e continuano ad essere del tutto marginali nel dibattito pubblico nazionale. Ma evanescenti perfino sul piano locale. Chi saprebbe citare a memoria il nome di un leader cittadino del Pd? Di un esponente del partito regionale? Di un assessore della giunta De Luca? E con questo siamo arrivati all’inchiesta sugli appalti del Rione Terra. Ma con ogni evidenza il problema va molto al di là della colpevolezza o dell’innocenza degli indagati. La questione è «morale», dice Barbagallo. Troppo generoso, Barbagallo. La questione della sinistra cittadina e dell’elettorato di sinistra a Napoli è ben più grave, è un nodo politico ormai storico e forse insolubile. Come fosse il deserto dei Tartari rivisitato. Nel fortino sperduto della sinistra si continuano ad affilare le armi, tutti pronti all’ultima battaglia. Non si sono accorti che i Tartari sono già arrivati e hanno fatto piazza pulita. Non c’è più niente da difendere. 30 aprile 2022 | 08:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-04-30 06:56:00, Il Pd, cioè l’unico partito di stampo novecentesco rimasto in città, finisce ancora una volta nei titoli di testa. Oggi tiene banco l’inchiesta giudiziaria che ne ha investito alcuni esponenti nazionali e locali per una serie di appalti relativi al Rione Terra (sebbene, com’è ovvio, convenga attendere lo sviluppo delle indagini e un’eventuale sentenza). Ma sono molte le vicende poco commendevoli che investono quotidianamente quel partito, le faide intestine che gli impediscono perfino di trovare un nome condiviso per la segreteria regionale, le traversie di società pubbliche che affondano tra spese allegre e deficit insostenibili o le innumerevoli polemiche riguardanti Vincenzo De Luca. Il quale, sebbene ostenti il piglio dell’autocrate, resta pur sempre un uomo del Pd. Viene da chiedersi che fine abbia mai fatto quel che dovrebbe essere il glorioso risultato della fusione tra «il meglio» del vecchio Pci e «il meglio» della vecchia sinistra Dc. E che fine abbiano fatto i suoi elettori. Di certo, a volerne considerare numeri e composizione sociologica, l’attuale Pd sembra avere assai poco da spartire con quel che era stata nel secondo Novecento la cosiddetta sinistra di classe, il partito degli operai dell’Ilva, il riferimento degli intellettuali alla Macchiaroli, il popolo che nel 1975 aveva portato trionfalmente Maurizio Valenzi a palazzo San Giacomo. A quei tempi, peraltro, l’offerta politica era ampia, la Dc proponeva una gamma di uomini e programmi, i socialisti erano in campo, i liberali resistevano, c’era la destra sommersa di Almirante. Ma poi, chiuse le fabbriche, mandato in soffitta il compromesso storico, affogata la «prima Repubblica» dallo tsunami giudiziario, tutto sarebbe cambiato. Quello di Bassolino non era più un partito di classe, la classe non c’era più. Era un partito personale e, se mai, era un partito di opinione. Ceti medi e intellighentia lo accolsero a braccia aperte e anzi, talvolta, con un certo conformismo. Salirono sul carro gli “interessi”, imprenditori, professionisti. La sinistra visse forse la sua stagione più fortunata. Ma per certi versi fu improvvida. Bassolino non fu capace di selezionare una classe dirigente che potesse succedergli, non riuscì a ramificare il consenso dei ceti colti, nè seppe motivare con adeguate politiche le periferie dell’emarginazione. Il suo fu un modello vincente, ma già fragile. Si trattava di una sinistra finalmente edulcorata sul piano ideologico e tuttavia incapace della profonda innovazione che chiedevano i tempi. Che erano ormai i tempi del web. Le raffinate istallazioni di piazza Plebiscito non bastarono a dare radici e futuro al bassolinismo. La stessa fine politica del leader, nei mesi della crisi dei rifiuti, segnalava la persistenza di una società metropolitana vecchia e vischiosa, che la politica non era riuscita a intaccare. Quella crisi svelò un groviglio di interessi localistici, infiltrazioni malavitose, scivolate ambientalistiche, timidezze tecnologiche. All’atto pratico, la sinistra si dimostrò poco coraggiosa, fu spaventata dai «comitati di lotta» contro le discariche, dovette venirle in soccorso Berlusconi con l’esercito, fu salvata da un termovalorizzatore che non aveva mai osato rivendicare. Venne alla luce, in quella drammatica congiuntura, un’opinione pubblica che al riformismo preferiva il richiamo demagogico della piazza. E difatti, nel giro di qualche anno, la sinistra di opinione diventò sinistra populista. Mentre un partito orfano del suo leader carismatico e privo di una successione prêt-à-porter si consumava in lotte intestine di rara incongruenza e infine nelle mitiche «primarie con i brogli», fatalmente le stanze delle sezioni si svuotavano. E si svuotava il consenso. Il popolo di sinistra iniziò a disertare le urne o, peggio, si dimostrò sensibile alle sirene del populismo. Portò a palazzo San Giacomo un sindaco che diceva di voler «scassare tutto». E cinque anni dopo lo elesse per la seconda volta, sebbene ne fosse ormai chiara l’estrema inefficienza amministrativa. Fu un vero tradimento delle proprie radici migliori e, al tempo stesso, un rivangare la peggiore demagogia comunista e democristiana (perché nel frattempo le «due anime» avevano dato vita all’ircocervo democrat). Fu cioè un miscuglio di mutazione genetica e di regressione. Al pauroso dimagrimento elettorale della sinistra, del resto, non corrispose soltanto il doppio trionfo di de Magistris, ma anche l’entusiastica accoglienza in città del grillismo. Napoli fu la culla del grillismo. Lo sommerse di voti. E quanti voti di sinistra finirono nella sporta del M5s? Vincenzo De Luca comparve in queste circostanze. A lui perciò non può darsi la colpa di aver mandato all’inferno la sinistra. Ma di certo con De Luca il cerchio è sembrato chiudersi. Il presidente della Campania non ha neppure dovuto fare i conti con il proprio partito, che nel 2010 era già distrutto. Ha semplicemente messo assieme i pezzi di una coalizione di piccoli e grandi interessi che non aveva più alcuna connotazione politica. Pezzi di sinistra, di centro, di destra. Micronotabili di città e di provincia. Un collage di portatori di voti. Un consenso che pescava nel serbatoio del populismo, tra quanti apprezzavano i proclami roboanti del governatore, tra i sempiterni adoratori dell’uomo forte, tra i creduloni del trumpiano «Campania first». Ma che raccoglieva il consenso anche di quanti condividevano le sue intemerate contro l’inefficienza amministrativa, contro le pastoie procedurali, contro i pubblici ministeri. Un misto di populismo, laissez faire e autocrazia, se mai esistesse una pozione del genere. E la sinistra (o quel che ne era rimasto)? Votò De Luca, come aveva votato de Magistris e Grillo. Oppure, ancora una volta, si astenne. Ma fu difficile perfino distinguerla, all’interno del cocktail apolitico che De Luca aveva offerto agli elettori. Era deluchismo, non più sinistra. Era abile comunicazione social, come hanno puntualmente documentato gli studi di Domenico Giordano. Il governatore aveva preso in gestione una fetta di opinione pubblica che appariva, oltre che ridotta ai minimi termini, svuotata di senso politico, distratta, passiva. A Napoli il Pd si presentò come la nomenklatura delle seconde file, donne e uomini che erano e continuano ad essere del tutto marginali nel dibattito pubblico nazionale. Ma evanescenti perfino sul piano locale. Chi saprebbe citare a memoria il nome di un leader cittadino del Pd? Di un esponente del partito regionale? Di un assessore della giunta De Luca? E con questo siamo arrivati all’inchiesta sugli appalti del Rione Terra. Ma con ogni evidenza il problema va molto al di là della colpevolezza o dell’innocenza degli indagati. La questione è «morale», dice Barbagallo. Troppo generoso, Barbagallo. La questione della sinistra cittadina e dell’elettorato di sinistra a Napoli è ben più grave, è un nodo politico ormai storico e forse insolubile. Come fosse il deserto dei Tartari rivisitato. Nel fortino sperduto della sinistra si continuano ad affilare le armi, tutti pronti all’ultima battaglia. Non si sono accorti che i Tartari sono già arrivati e hanno fatto piazza pulita. Non c’è più niente da difendere. 30 aprile 2022 | 08:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

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