La scelta di Danielle Madam: «Il razzismo si combatte anche attraverso lo sport»

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di Pier Luigi Vercesi

La campionessa di lancio del peso è testimonial per Amref contro i luoghi comuni. L’infanzia in Camerun, le difficoltà in Italia fino alla svolta in pista. Presto la laurea

«Alzati, e scendi con me in cortile». Sembrava un ordine più che un’esortazione. Danielle Madam se ne stava rannicchiata in un angolo del corridoio dell’istituto tecnico. Era il suo pensatoio, anzi era il suo esilio da un mondo che la rendeva infelice. In classe era l’elemento di disturbo. Per quanto i professori cercassero di comprendere, alla fine la spedivano fuori dall’aula per poter continuare in serenità le lezioni. Sembrava che nessuno avesse bisogno di lei e lei che aveva bisogno di tutto credeva di poter fare a meno di tutto. Era il momento delle scelte sbagliate. Ora però una giovane atleta si era ammalata «e tu, non fare storie, la devi sostituire alle prossime gare provinciali». Bastarono un paio di allenamenti e la medaglia nel getto del peso fu sua.

Le suore della casa-famiglia che la ospitavano a Pavia si trascinavano sconsolate all’istituto, convocate dai docenti: «Danielle non studia, Danielle disturba, se va avanti così finisce male…». Niente di nuovo. Ma era da capire, aveva alle spalle un’infanzia difficile da raccontare senza farsi prendere il groppo in gola. Era nata in Camerun nel 1997, lei e suo fratello gemello, frutto di un amore alla Giulietta e Romeo tra due giovani africani che avevano osato emanciparsi dall’odio etnico che da secoli contrapponeva i loro clan di appartenenza. La famiglia del padre era profondamente radicalizzata e non aveva mai accettato la fuga per amore del loro ragazzo divenuto marito e padre con una donna sbagliata. Cercare di sparire, cambiare città, nascondere i figli (ne era nato un altro prima dei gemelli) presso parenti della madre o amici per sottrarli al pericolo non era bastato. Quel matrimonio che aveva fatto calare la vergogna sul clan doveva essere reciso, annientato.

Così accadde. Rapirono il padre e al rifiuto di rinnegare l’amore della sua vita lo uccisero spietatamente. Lo stesso giorno il figlio maggiore venne avvelenato a scuola, con il pasto che interrompeva le lezioni della mattina da quelle del pomeriggio. «Quando scomparve papà, mamma affidò me e mio fratello a una coppia di amici e disse loro di accompagnarci alle giostre. Ci proteggeva dalle emozioni negative». I gemelli dormivano sempre in posti diversi, mentre la mamma, prima donna direttore di una filiale di banca in Camerun, cominciò l’estenuante trafila per ottenere i documenti di viaggio per l’Italia, dove viveva uno zio. Non fu facile, ma con la forza della disperazione ci riuscì. Andò a riprendersi i gemelli e, giunta a Pavia, li affidò al fratello tornando in Camerun dove poteva guadagnare abbastanza per mantenerli.

Danielle e suo fratello si ritrovarono catapultati su un altro pianeta, spesso ostile. Cominciarono a frequentare le elementari appoggiandosi l’uno all’altra, soprattutto a Danielle, che sopperiva alle coccole della mamma di cui Ivan pativa terribilmente la mancanza. In prima media, tre anni dopo essere giunti in Italia, lo zio morì e i servizi sociali si presero cura dei due ragazzi, naturalmente dividendoli, lei in una casa-famiglia gestita da suore, lui dai preti. «In quei primi anni ci facevano incontrare una volta la settimana in una stanza alla presenza di un educatore». Si spezzava anche l’ultimo tenue filo di un universo affettivo nato da un amore che dopo aver vinto tutti gli ostacoli era scivolato in una tragedia greca.

«Quando il professore mi chiese di allenarmi, ero al bivio che decide una vita. Devi fare la scelta facile o quella difficile. Tu, arrabbiata con il mondo, propendi per la prima. Deve intervenire qualcosa o qualcuno che ti faccia capire che solo l’altra permette di realizzare i sogni di cui credi ti abbiano derubato». Ivan non ce l’ha fatta. Nel 2015, per evitare il peggio, la mamma lo ha riportato in Camerun. Danielle, tentennò, tiro fuori tutto l’astio che aveva dentro, e cominciò a capire che quando si allenava con metodo vinceva, ed era felice. Se si lasciava vivere, raccontando bugie alle suore convinte fosse al campo di atletica, perdeva, ed era infelice. Lo stesso accadeva a scuola. «Mi accorsi che con un minimo di sforzo arrivavo alla sufficienza e se mi impegnavo prendevo voti altissimi. Fu un trauma persino per i prof. Chiamarono le suore per chiedere cosa fosse successo, non si capacitavano di questo mutamento repentino».

Di gara in gara, di vittoria in vittoria Danielle è divenuta un’atleta conosciuta, parla un elegante italiano, ha cercato di capire le sue origini africane, essendo cresciuta in Italia, si è accorta che i giovani qui e là hanno esattamente le stesse aspirazioni, gli stessi sogni, ma per l’Italia restava un cittadina di serie B. Anzi, non era una cittadina. Un giorno lesse sul giornale il caso di un calciatore al quale avevano fatto superare i test nonostante non parlasse una parola di italiano perché bisognava fargli avere la cittadinanza a qualunque costo.  «Sono timida, fatico ad espormi, ma ho sentito il bisogno di farlo per tutti quelli come me che subivano l’ingiustizia quotidiana di vivere in un Paese che sentivano come il proprio ma che non riconosceva loro alcun diritto». Il sindaco leghista di Pavia si prese a cuore il caso e in poco tempo Danielle ebbe la cittadinanza. Poi venne la Rai a bussare alla sua porta chiedendole di presentare le serate dedicate ai fortunati europei di calcio che l’Italia vinse.

Per Danielle, ora vicina alla laurea con una tesi sulla percezione dei giovani africani di seconda generazione in Italia, cominciava una nuova vita, nella quale mettere sul banco la propria esistenza, drammatica ed edificante, per spiegare agli italiani che l’Africa e gli africani non sono solo povertà, fame, carità. Quando Amref le ha chiesto di fare da testimonial per la prossima campagna «Per battere gli stereotipi non serve un campione» contro le paure e i luoghi comuni che ancora oggi circondano gli africani in Italia (ladro, spacciatore, questuante, le donne prostitute) «ho capito che la mia vita, le mie sofferenze potevano servire ad altri giovani come me. Sono certa che qualcosa stia già cambiando. Guarda», dice aprendo lo zainetto, «in un negozio qui vicino ho trovato una bambola nera. Vedi quanto è carina?».

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23 maggio 2022 (modifica il 23 maggio 2022 | 23:58)

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