Il Pd stretto tra nuovismo e astensione

editoriale Mezzogiorno, 2 settembre 2022 – 09:08 di Marco Demarco Alle ultime elezioni politiche, gli astenuti sono stati il 39%. Tra le grandi città, Napoli è stata, così, tra quelle con la più alta percentuale di non voto (le altre sono Catania e Palermo). Ma Napoli è stata anche la prima in assoluto per i voti dati al Movimento Cinque stelle («nel mio collegio oltre 52%», si è vantato di recente Fico). Il che porta a dire che qui si sono sovrapposte due forme di protesta elettorale: quella dell’astensionismo, nel quale, come si sa, può esserci di tutto, dal qualunquismo all’iperpoliticismo; e quella di un voto che si potrebbe definire invece «nuovista», ovvero dato alla forza politica che più di altre riesce a proporsi come la novità, la rottura con il passato; quella sulla quale l’elettorato insoddisfatto ritiene valga ancora la pena investire qualcosa. La somma del non voto e del voto «nuovo» ha fatto dunque di Napoli la capitale del dissenso elettorale. Un problema non da poco. Una radicalità, una spinta «contro», quella del capoluogo campano, che tra l’altro si è accentuata nel tempo. Se si prende come riferimento Firenze, ovvero la città da sempre più presente agli appuntamenti elettorali, si vedrà infatti che la differenza di partecipazione al voto con Napoli è passata da 12 a 17 punti percentuali. È successo che nel ‘48 votarono il 97% dei fiorentini e l’85% dei napoletani; mentre nel 2018 gli elettori sono stati, rispettivamente, il 78% e il 61%. Perché ciò è avvenuto è una questione che non potrà non essere attentamente analizzata. Di sicuro, c’entra la mai risolta questione meridionale. Ma come escludere la scarsa influenza, in termini di qualità ed efficienza, dei poteri locali meridionali, nonostante l’alternanza che pure c’è stata nelle giunte comunali e regionali? Oggi, però, il problema è capire per chi suonano le campane dell’astensionismo e del nuovismo. Ed è indubbio che l’allerta riguardi in primo luogo la sinistra. Vediamo perché, cominciando dall’astensionismo. È da tempo che gli esperti invitano a vedere il fenomeno in modo diverso, ovvero con la consapevolezza di una ostilità nei confronti dei partiti politici che non è più un’esclusiva delle componenti marginali della società, quelle meno scolarizzate e meno coinvolte nella rivoluzione tecnologica; quelle la cui rappresentanza non è più garantita dalla sinistra tradizionale. Negli studiosi è semmai radicata la convinzione che questo atteggiamento critico cominci ad essere proprio anche della parte di cittadini più vicina ai centri decisionali e al mondo progressista; quella il cui interesse per la politica è cresciuto, anziché diminuire, anche in virtù delle competenze acquisite e della crescente autoconsiderazione civica; quella parte che ha come riferimento la sinistra «inclusiva», la sinistra dei diritti sempre più dilatati e sempre più «decostruiti», come dice Walter Siti. Il quale avverte: e si sa, «i diritti, lasciati soli, dividono all’infinito», perché poi ognuno starà lì «a sventolare la propria bandiera identitaria». Questo elettorato particolarmente esigente e iperpoliticizzato, che ha fatto della cultura e non dei reali rapporti di forza il suo campo di battaglia, sarà quindi il primo a disertare le urne, se l’inclusività promessa rimarrà campata in aria. Alla fine, dice Siti, io non potrò che votare Pd, sebbene avverta aria «di snobismo radicale ed elitario». Ma gli altri? E siamo al secondo punto. Ancora più evidente, per la sinistra, è il rischio «nuovismo». Finora, infatti, gli orientamenti elettorali degli indecisi — e sono sempre moltissimi alla vigilia del voto — sono sempre andati in una sola direzione: quella di premiare il «nuovo» più del previsto, più del più favorevole dei sondaggi. I dati che sostengono questa ipotesi sono stati riportati qualche giorno fa da Giovanni Orsina su La Stampa. Eccoli. Voto nazionale del febbraio 2013: a gennaio la media dei sondaggi indicava il Movimento 5 Stelle al 14%, avrebbe preso il 25. Voto europeo del maggio 2014: ad aprile il partito democratico di Renzi era quotato il 32%, avrebbe raggiunto il 40. Voto nazionale del marzo 2018: a febbraio la Lega era data al 13%, e il M5s al 27%. Avrebbero raccolto rispettivamente il 17 e il 32. Voto europeo del maggio 2019: per la Lega si prevede il 31%, sarà invece il 34 e sorpasserà il Pd nel Mezzogiorno. Per tutti la ruota ha poi ricominciato a girare, come si sa. Ma se questo sono le tendenze di fondo; se il nuovo oggi è, come dicono i sondaggi, il partito di Georgia Meloni; e se Napoli, come è lecito pensare, si confermerà ancora capitale dell’astensionismo, allora c’è poco da aggiungere: i giochi sono aperti. Ma non apertissimi. E sarà arduo puntare a ridefinire qui vita e destino della sinistra. 2 settembre 2022 | 09:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-09-02 09:46:00, editoriale Mezzogiorno, 2 settembre 2022 – 09:08 di Marco Demarco Alle ultime elezioni politiche, gli astenuti sono stati il 39%. Tra le grandi città, Napoli è stata, così, tra quelle con la più alta percentuale di non voto (le altre sono Catania e Palermo). Ma Napoli è stata anche la prima in assoluto per i voti dati al Movimento Cinque stelle («nel mio collegio oltre 52%», si è vantato di recente Fico). Il che porta a dire che qui si sono sovrapposte due forme di protesta elettorale: quella dell’astensionismo, nel quale, come si sa, può esserci di tutto, dal qualunquismo all’iperpoliticismo; e quella di un voto che si potrebbe definire invece «nuovista», ovvero dato alla forza politica che più di altre riesce a proporsi come la novità, la rottura con il passato; quella sulla quale l’elettorato insoddisfatto ritiene valga ancora la pena investire qualcosa. La somma del non voto e del voto «nuovo» ha fatto dunque di Napoli la capitale del dissenso elettorale. Un problema non da poco. Una radicalità, una spinta «contro», quella del capoluogo campano, che tra l’altro si è accentuata nel tempo. Se si prende come riferimento Firenze, ovvero la città da sempre più presente agli appuntamenti elettorali, si vedrà infatti che la differenza di partecipazione al voto con Napoli è passata da 12 a 17 punti percentuali. È successo che nel ‘48 votarono il 97% dei fiorentini e l’85% dei napoletani; mentre nel 2018 gli elettori sono stati, rispettivamente, il 78% e il 61%. Perché ciò è avvenuto è una questione che non potrà non essere attentamente analizzata. Di sicuro, c’entra la mai risolta questione meridionale. Ma come escludere la scarsa influenza, in termini di qualità ed efficienza, dei poteri locali meridionali, nonostante l’alternanza che pure c’è stata nelle giunte comunali e regionali? Oggi, però, il problema è capire per chi suonano le campane dell’astensionismo e del nuovismo. Ed è indubbio che l’allerta riguardi in primo luogo la sinistra. Vediamo perché, cominciando dall’astensionismo. È da tempo che gli esperti invitano a vedere il fenomeno in modo diverso, ovvero con la consapevolezza di una ostilità nei confronti dei partiti politici che non è più un’esclusiva delle componenti marginali della società, quelle meno scolarizzate e meno coinvolte nella rivoluzione tecnologica; quelle la cui rappresentanza non è più garantita dalla sinistra tradizionale. Negli studiosi è semmai radicata la convinzione che questo atteggiamento critico cominci ad essere proprio anche della parte di cittadini più vicina ai centri decisionali e al mondo progressista; quella il cui interesse per la politica è cresciuto, anziché diminuire, anche in virtù delle competenze acquisite e della crescente autoconsiderazione civica; quella parte che ha come riferimento la sinistra «inclusiva», la sinistra dei diritti sempre più dilatati e sempre più «decostruiti», come dice Walter Siti. Il quale avverte: e si sa, «i diritti, lasciati soli, dividono all’infinito», perché poi ognuno starà lì «a sventolare la propria bandiera identitaria». Questo elettorato particolarmente esigente e iperpoliticizzato, che ha fatto della cultura e non dei reali rapporti di forza il suo campo di battaglia, sarà quindi il primo a disertare le urne, se l’inclusività promessa rimarrà campata in aria. Alla fine, dice Siti, io non potrò che votare Pd, sebbene avverta aria «di snobismo radicale ed elitario». Ma gli altri? E siamo al secondo punto. Ancora più evidente, per la sinistra, è il rischio «nuovismo». Finora, infatti, gli orientamenti elettorali degli indecisi — e sono sempre moltissimi alla vigilia del voto — sono sempre andati in una sola direzione: quella di premiare il «nuovo» più del previsto, più del più favorevole dei sondaggi. I dati che sostengono questa ipotesi sono stati riportati qualche giorno fa da Giovanni Orsina su La Stampa. Eccoli. Voto nazionale del febbraio 2013: a gennaio la media dei sondaggi indicava il Movimento 5 Stelle al 14%, avrebbe preso il 25. Voto europeo del maggio 2014: ad aprile il partito democratico di Renzi era quotato il 32%, avrebbe raggiunto il 40. Voto nazionale del marzo 2018: a febbraio la Lega era data al 13%, e il M5s al 27%. Avrebbero raccolto rispettivamente il 17 e il 32. Voto europeo del maggio 2019: per la Lega si prevede il 31%, sarà invece il 34 e sorpasserà il Pd nel Mezzogiorno. Per tutti la ruota ha poi ricominciato a girare, come si sa. Ma se questo sono le tendenze di fondo; se il nuovo oggi è, come dicono i sondaggi, il partito di Georgia Meloni; e se Napoli, come è lecito pensare, si confermerà ancora capitale dell’astensionismo, allora c’è poco da aggiungere: i giochi sono aperti. Ma non apertissimi. E sarà arduo puntare a ridefinire qui vita e destino della sinistra. 2 settembre 2022 | 09:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

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