Ignazio La Russa: «I rossi mi avevano teso un agguato: quella sera mi salvò una scossa di terremoto»

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Ignazio La Russa: «I rossi mi avevano teso un agguato: quella sera mi salvò una scossa di terremoto» Ignazio La Russa partecipa alla protesta del centrodestra, il 2 giugno 2020, contro i provvedimenti per la ripresa economica presi dal governo Conte

«Quei fotogrammi all’inizio del film di Bellocchio raccontano una storia che per me è molto importante. Era una manifestazione del Comitato cittadino anticomunista, il CCA, che poi tutti avevano preso a chiamare “Maggioranza silenziosa”. Le prime riunioni le avevamo fatte nel 1971 nella sede milanese del Partito monarchico, in corso Genova, seguendo un’idea che era riservatamente partita dal mitico Nino Nutrizio, direttore de La Notte. C’erano ovviamente i monarchici, c’eravamo noi del Fronte della Gioventù del MSI, i liberali e altre associazioni antimarxiste. I democristiani sarebbero arrivati in seguito…»

«FU COSÌ, PRATICAMENTE QUASI PER CASO, CHE IL VENTICINQUENNE IGNAZIO LA RUSSA AVREBBE TROVATO IL SUO PICCOLO POSTICINO NELLA STORIA DEL CINEMA ITALIANO, SUI TITOLI DI TESTA DEL FILM “SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA” DEL REGISTA MARCO BELLOCCHIO»

«La prima manifestazione fu un trionfo inatteso. E subito scattò un meccanismo repressivo che vietò altri cortei. Dopo varie vicissitudini e spaccature, arriviamo a quel 14 marzo del 1972, che poi fu il giorno della morte di Giangiacomo Feltrinelli, anche se il cadavere l’avrebbero trovato il giorno dopo. Al comizio di Piazza Castello doveva intervenire il direttore del Borghese, Mario Tedeschi. Che però non riesce a raggiungere in orario la piazza. Io stavo coordinando il servizio d’ordine, avevo un chilo di limoni tagliati a metà da distribuire in caso di attacco coi lacrimogeni; eravamo circondati dai rossi, c’era la polizia, si rischiavano gli scontri… Chi viene chiamato a parlare dal palco per tappare il “buco” del ritardo di Tedeschi?».

Fu così, praticamente quasi per caso, che il venticinquenne Ignazio La Russa avrebbe trovato il suo piccolo posticino nella storia del cinema italiano, sui titoli di testa del film “Sbatti il mostro in prima pagina” del regista Marco Bellocchio. A quel tempo La Russa, che di posti in prima pagina ne avrebbe collezionati parecchi, nei quarant’anni successivi, era già il leader milanese del Fronte della gioventù, il movimento giovanile del Msi.

Infanzia a Paternò. Poi sessant’anni a Milano. Senza mai aver preso l’accento.

«Considero Milano la mia città ma l’identità è una sola: guai a perderla, se abbandoni la tua poi non ne trovi un’altra».

Com’era finito a Milano?

«Mio padre, avvocato e anche vicepresidente della Liquigas, faceva la spola tra Milano e Catania. Nel ‘60 mia mamma gli disse “basta, ci trasferiamo tutti”. Per me quel trasferimento fu un triplo salto mortale. Lascio la Sicilia per Milano ma subito mi iscrivono a un collegio internazionale in Svizzera, a San Gallo».

Che anni furono?

«In Svizzera dividiamo la stanza in tre: io e due americani, un texano e un afroamericano. Il secondo diventa uno dei miei migliori amici; col primo litigai pesantemente, indovini perché».

Perché?

«Perché con una concezione razzista, aveva disegnato sé stesso a cavallo, col nostro compagno di stanza, l’afroamericano, attaccato al lazo come se si fosse all’epoca dello schiavismo. E la cosa mi mandò in bestia».

«A FINI COME LEADER DELLA PRIMA FASE DO UN VOTO ALTISSIMO. SAREBBE INGIUSTO LIQUIDARLO PENSANDO SOLO A COME È ANDATA A FINIRE. FRATELLI D’ITALIA? CAPII CHE IL PARTITO UNICO ERA FALLITO, LE NOSTRE IDEE SI SAREBBERO SALVATE SOLO SALTANDO UNA GENERAZIONE»

Ignazio La Russa a fianco di Gianfranco Fini a Milano, prima di un comizio del Movimento Sociale Italiano in piazza Duomo, nel 1992  (foto Contrasto) Ignazio La Russa a fianco di Gianfranco Fini a Milano, prima di un comizio del Movimento Sociale Italiano in piazza Duomo, nel 1992 (foto Contrasto)

Negli anni ‘70 lei diventa il leader più in vista del Fronte della gioventù milanese. La prima istantanea che le viene in mente?

«È di qualche mese prima. Giugno ‘69, muore Arturo Michelini, Giorgio Almirante diventa segretario del Msi e viene a incontrare noi giovani di Milano. Eravamo considerati i più anti-sistema, i più rivoluzionari d’Italia. C’erano circa trecento persone, scendiamo giù nel cortile della sede di corso Monforte. Inizia a piovere a dirotto, tutti apriamo gli ombrelli, uno dei nostri ne apre uno sulla testa di Almirante. Che però gli ordina di chiuderlo, cosa che chiede di fare a tutti noi. Parlerà per quaranta minuti sotto la pioggia battente. Quel gesto ci convinse della bontà delle sue parole più che le parole stesse».

Che cosa vi disse?

«Che bisognava chiudere con le immagini nostalgiche e iniziare a guardare avanti battendo “il pericolo Rosso”. La sua partecipazione ai funerali di Berlinguer, anni dopo, fu per me un motivo di orgoglio: era la prova che non c’era odio ma solo contrapposizione ideologica».

Ha mai avuto paura di morire nella Milano degli anni ‘70?

«Era una guerra civile. Come stare a Belfast, anche se attorno a noi la gente sembrava non rendersene conto. Una sera mi salvò il terremoto».

In che senso?

«Mio fratello Romano porta giù il cane e nota alle 19 una macchina sotto casa mia. C’è qualcosa che non gli torna nello sguardo di chi era appostato là dentro. Mandiamo due ragazze in avanscoperta e capiamo che sono “compagni” che in quattro macchine aspettano me per un’imboscata. A quel punto decidiamo di anticipare l’aggressione, attaccando noi per primi. Per fortuna arriva una scossa di terremoto che li porta ad abbandonare il luogo e i loro propositi. E anche noi desistiamo. Me lo confermarono i condannati per l’assassinio di Sergio Ramelli quando vennero a consegnarmi la lettera di richiesta di perdono per mamma Ramelli».

Lei difendeva la famiglia del diciassettenne ammazzato nel ‘75 da un gruppo di militanti vicini ad Avanguardia operaia.

«Non chiedemmo mai vendetta. Che facessero un giorno o trent’anni di carcere, e questo lo pensava la mamma di Sergio, a noi non importava nulla. Ci interessavano due cose e le ottenemmo: dimostrare che Sergio era un ragazzo assolutamente innocente e che quello era un omicidio volontario dettato dall’odio politico. Anni dopo Piercamillo Davigo mi disse che in tribunale avevano apprezzato quella posizione processuale».

Nel 1995 è alla testa della svolta di Fiuggi: la fine del Msi, la nascita di Alleanza Nazionale.

«L’ideologo era Pinuccio Tatarella, che ne aveva parlato a me e a Maurizio Gasparri. Io e Maurizio lo accompagnammo da Fini. “È giunto il momento, conveniamo, di fare una svolta che sdogani la destra italiana”. A Gianfranco, come leader della prima fase, do un voto altissimo. Sarebbe ingiusto liquidarlo pensando solo a com’è andata a finire».

La Russa  nel 2010, con Giorgia Meloni, alla presentazione delle candidate del Pdl alle elezioni regionali (foto Contrasto) La Russa nel 2010, con Giorgia Meloni, alla presentazione delle candidate del Pdl alle elezioni regionali (foto Contrasto)

Poi però anni dopo lei e Gasparri, insieme a Matteoli, litigate con lui la volta che il cronista Nicola Imberti vi sorprende a parlarne male, in un bar di Roma.

«La verità è questa: Fini aveva deciso di sostenere il referendum per abrogare la legge sulla procreazione assistita, la corrente di Alemanno e Storace voleva farlo fuori. Io, Gasparri e Matteoli dopo averlo salvato, parlavamo al bar “La Caffettiera” di come dargli una scossa. Quando esce l’articolo del Tempo, gli telefono e ci chiariamo. “Guarda che noi lo dicevamo da amici che ti devi svegliare”. Lui risponde “sì, l’ho capito, non ci pensiamo più”. Poi i grandi giornali cavalcano il caso e lui lo sfrutta a suo vantaggio riacquisendo la centralità che aveva perso, smarcandosi da noi».

Neanche dieci anni dopo s’è inventato Fratelli d’Italia. L’intuizione?

«Il partito unico aveva fallito. Le nostre idee si sarebbero salvate solo saltando una generazione, com’era stato nel passaggio tra Almirante e Fini. L’unica leadership possibile era una giovane preparata e capace come Giorgia Meloni ed è a lei che ho subito pensato e che tutti hanno voluto».

Pentito di non averci provato in prima persona?

«Mai. E la storia mi ha dato ragione».

CARTA D’IDENTITÀ


La vita — Ignazio Benito Maria La Russa è nato a Paternò (Catania), il 18 luglio 1947, figlio di Antonino, ex segretario locale del Partito Fascista negli Anni 40. Avvocato penalista, da oltre 30 anni è legato a Laura de Cicco. Ha tre figli: Antonino Geronimo, Lorenzo Cochis e Leonardo Apache.

La politica — Nel 1971 diventa responsabile dei giovani del Movimento sociale italiano. Nel 1992 viene eletto alla Camera, di cui diventa vicepresidente due anni dopo. Tra i fondatori di An con Gianfranco Fini, che ha sostituito alla presidenza del partito nel 2008, è stato ministro della Difesa dal 2008 al 2011, nel IV governo Berlusconi. Deputato alla Camera per 22 anni, dal 1992 al 2018, è stato poi eletto al Senato, del quale è uno dei tre vicepresidenti, nelle fila di Fratelli d’Italia.

, 2022-10-13 13:40:00, «Nella Milano degli Anni 70 era come una guerra civile, sembrava Belfast. Mio fratello Romano scese a portare il cane e si accorse che c’era una macchina sospetta: mandammo in avanscoperta due ragazze e capimmo che erano “compagni”…», Tommaso Labate

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