Federer e Nadal: l’addio e le lacrime mano nella mano dei due rivali

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di Gaia Piccardi

Roger e Rafa nella notte del ritiro a Londra: nel tennis finora si erano viste le lacrime, l’inedito è la mano che lo svizzero tende al collega e rivale di sempre. È finita un’era

Prima che la musica finisse e gli amici (i 20 mila spettatori della O2 Arena di Londra) se ne andassero, Federer il semidio ha allungato il braccio sul divanetto nero che ospitava 44 titoli Slam per afferrare la mano di Nadal e per piangere insieme, consegnando alla storia dello sport un’immagine di indicibile potenza. Un maschio che piange nel tennis, è ammesso: ce l’ha insegnato Sampras. Due, carissimi rivali, non si erano mai visti e non stupisce che a prendere l’iniziativa del gesto sia stato lo svizzero, portatore di un concetto di virilità più morbido: Roger piangeva per la nostalgia di ciò che non sarà più («Sono lacrime di gioia, bambini, sorridete» ha detto ai figli provando a convincere ad alta voce, innanzitutto, se stesso), Rafa perché insieme a Federer — 40 sfide in 15 anni, 9 in finali Slam, 24-16 per lo spagnolo inclusa una delle due sconfitte più dolorose per lo svizzero: Wimbledon 2008 — se n’è andata una parte di lui, inghiottita dal ritiro del più bravo di tutti, che si è portato in pensione tre lustri di storia comune. Senza Nadal non ci sarebbe stato un Federer così bello; senza Federer, l’evoluzione di Nadal sarebbe rimasta un binario morto. Senza Achille d’altronde non sarebbe esistito Ettore, le battaglie non avrebbero profuso epica né scintille di immortalità, ispirando legioni di giovani guerrieri.

L’ha detto Berrettini, promosso singolarista in Laver Cup, all’unico essere umano le cui esequie londinesi siano durate più a lungo di quelle della regina: «Se tu non avessi giocato a tennis, io non esisterei». E sull’eros e thanatos degli incroci tra questi due atomi di talento destinati a resistersi solo per legarsi ogni volta di più come l’idrogeno e l’ossigeno nella formula dell’acqua, esercita la sua forza amplificatrice la capacità unica e meravigliosa del tennis, lo sport più solitario ed emotivo del playground, di creare le più intense rivalità tra tutti gli sport.

Nessuno sa quante volte si siano affrontati Laver e Rosewall nel derby tra canguri rimbalzato tra età amatoriale e professionismo (si sospetta 141, 75-66 per la leggenda dei due Grande Slam), ma non sarà facile per Alcaraz e Sinner — gli alfieri della nuovissima generazione che è stata ufficialmente sdoganata dalla fine dell’era Federer — superare le 80 sfide tra Navratilova e Evert (43-37, 60 di esse con in palio una coppa), mentre le 34 tra McEnroe e Connors (20-14) e Sampras e Agassi (20-14), classici anni Ottanta e Novanta, o le 35 tra Becker e Edberg (25-10 però lo svedese ha un record migliore nelle finali: 3-1) sono raggiungibili e pochi altri corti circuiti elettrici avranno l’intensità degli appena 14 incontri tra McEnroe e Borg (7-7), con l’apice raggiunto nel tie break del quarto set della finale di Wimbledon ‘80, una vicenda surreale finita 18-16 per l’americano, che perderà il match e l’anno dopo impedirà al rivale di conquistare il sesto titolo di fila in Church Road. Anche in quel caso, come sabato notte a Londra, era finita un’epoca.

Nadal in lacrime è un inedito che prelude, dopo Serena Williams e Roger Federer, all’addio di un altro immortale del tennis. Lui. «Non sono pronto a pensarci, ho davvero creduto che il Roland Garros fosse il mio ultimo torneo, ora ho cose più importanti a cui dedicarmi» ha detto Rafa alla Laver Cup, disertata subito dopo il doppio (perso dagli americani Sock e Tiafoe) per tornare a Manacor, dove a settimane, in fondo alla gravidanza non facile di Xisca, è atteso il primo erede. Federer dall’esame di coscienza del neopapà globetrotter era passato a un’età più verde di Rafa, che ha 36 anni e un motore dal chilometraggio (il)limitato, di certo nei loro colloqui privati (gli altri giocatori del team Europa sono stati comparse del loro film) hanno parlato del bivio che attende l’ex niño: continuare? Per quanto? E fino a dove, Parigi per la quindicesima volta? Piangeva guardandosi riflesso nello specchio di Federer, Rafa, improvvisamente anziano e rugoso come Dorian Gray uscito di colpo dal dipinto.

Quando Nadal, già ampiamente bullizzato da zio Toni, debuttava nel circuito (prima vittoria Atp il 29 aprile 2002), Federer — maggiore di quattro anni, nove mesi e 26 giorni — si era già annesso il secondo titolo della carriera. Nessuno dei due è in grado di risalire con precisione al primo incontro. «Io sono arrivato e lui era già lì — ha ricordato Rafa a Londra —, per me Roger è sempre stato l’avversario da battere». Mai con acrimonia, cattivi sentimenti, malanimo. Mai. «Al di là degli stili opposti, siamo simili» ha ammesso Federer centrando il viaggio esistenziale di due anime gemelle inserite in corpi paralleli. Se Federer avesse avuto la testa di Rafa, non a caso, dall’innesto sarebbe scaturita una creatura mitologica e imbattibile. Ma sai che noia.

Non riusciamo a non pensare, ora che metà della leggenda dei tennisti straordinari è giunta all’epilogo, che se Federer alla lussuosa messa in scena della Laver Cup avesse preferito una dignitosa sconfitta al primo turno del torneo di Basilea, casa sua, dove cominciò da raccattapalle, a fine ottobre, i titoli di coda sarebbero stati più intonati alla longevità agonistica del giocatore più bello da Adamo ed Eva a oggi. Però un addio più competitivo e meno rispondente a un copione scritto ci avrebbe privati della foto di quei due per mano, con la maglia ciascuno umida delle lacrime dell’altro. E allora va bene così, non ci lamentiamo.

24 settembre 2022 (modifica il 24 settembre 2022 | 23:13)

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