«L’eleganza di Ottavio Missoni mentre mimava i suoi tuffi da ragazzo»

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di Mauro Covacich

Mauro Covacich racconta lo stilista: antiretorico e curioso, sapeva ascoltare. «Mi chiedeva di Trieste: si va ancora a ballare in quel posto? È rimasta quella pasticceria?». «Gli ho chiesto di Zara e ha perso l’allegria: “Non esiste più, esiste solo dentro di me”»

Si dice bello come un dio greco, ma si potrebbe dire tranquillamente bello come un dio dalmata se solo i dalmati avessero una mitologia adeguata. Lui comunque tra gli dei dell’Olimpo non avrebbe sfigurato per niente. La bellezza però avrebbe significato poco o nulla, se non fosse stata portata con la sua eleganza. E qui è necessario soffermarsi un attimo su che cos’è l’eleganza, anche per non essere equivocati, vista la professione di Ottavio Missoni.

L’eleganza c’entra poco con l’alta moda e gli abiti firmati, in particolare c’entra poco con la sua, quasi mai impreziosita da capi impegnativi: l’unica volta che ha dovuto indossare un completo blu per salire al Quirinale è entrato a comprarselo in un negozio Armani. L’eleganza di Missoni traspariva in ogni suo gesto, era la naturalezza con cui parlava del suo passato modesto, la semplicità con cui ammetteva di non praticare l’ambiente della moda, la sprezzatura con cui ascoltava chi tesseva le lodi del suo impero.

L’incontro

Ci siamo conosciuti una mattina in un teatro di Milano, invitati entrambi a un cosiddetto evento, organizzato perché parlassimo agli studenti del nostro rapporto con lo sport. Io venivo da un’assidua quanto mediocre pratica di maratoneta, lui era stato un campione della pista, aveva vinto vari titoli italiani, un campionato mondiale studentesco e nel 1948 era entrato in finale alle Olimpiadi di Londra. Nella sua Zara, sull’altra sponda dell’Adriatico, aveva imparato a correre i quattrocento piani, detti non a caso il giro della morte, e poi si era avventurato sui quattrocento ostacoli (il giro della morte più ostacoli), cioè due discipline tra le più difficili e tecniche dell’atletica leggera, per le quali è necessaria una preparazione maniacale, salvo che tu non sia dotato di un talento naturale così straordinario, diciamo alla Usain Bolt, da poterti allenare lo stretto indispensabile. Ma lui al suo talento guardava con indifferenza, sorridendo sornione quasi non valesse la pena soffermarcisi. Diceva che era cresciuto in mezzo a gente, i dalmati, la cui mentalità non vedeva di buon occhio chi si ammazzava di fatica. In generale la gente di mare, lo dico da triestino, ha una certa resistenza verso attività troppo stancanti, tipo allenarsi, o anche solo lavorare, è tutto tempo sottratto al sole, alla spiaggia, ai mille piaceri della vita.

La confidenza

In quell’incontro, dopo qualche tentennamento in italiano, mi aveva confessato in dialetto che lui non aveva studiato tanto, perché quand’era bambino succedeva spesso che sua madre, vedendolo dormire saporitamente, decidesse di non mandarlo a scuola. Ma questo, secondo me, era uno dei tanti modi che aveva per schermirsi, allegre iperboli, esagerazioni pour épater le bourgeois, e comunque il dialetto, pressoché identico al triestino, lui lo usava con disinvoltura ogni volta che il discorso prendeva una piega troppo pomposa e richiedeva di essere sdrammatizzato. Anche questa specie di antiretorica atteneva alla sua eleganza. A un certo punto, ad esempio, quando il moderatore lo aveva interrogato su quali erano i suoi insegnamenti ai ragazzi e quali le sfide che aveva dovuto affrontare nel corso della sua lunga esistenza, lui aveva risposto: «Mah, io di sfide non ne ho fatte. Ho sempre vissuto alla giornata. Tutto è avvenuto poco per volta, piano piano, senza porsi alcun traguardo, cercando di non complicarsi troppo la vita».

Dopo l’impegno pubblico, a cui si era presentato in jeans e scarpe da ginnastica — il collo della maglietta un po’ allentato, un tocco di maestosa trascuratezza —, pensavo dovesse volar via, costretto da un’agenda chissà quanto fitta, invece mi ha portato in un bar lì vicino e ci siamo messi a chiacchierare. Era Trieste ovviamente, non certo la corsa, il vero punto di contatto.

Le domande

Mi sommergeva di domande. C’era ancora quella tal pasticceria? Si andava ancora a ballare in quel posto? Si facevano ancora i tuffi a quel modo («a clanfa»)? Eravamo entrambi colpiti per come un tuffo inventato dai ragazzi chissà quanto tempo fa, prima anche di quando lui stesso si tuffava, fosse sopravvissuto e trasmesso di generazione in generazione nei gesti della gioventù, fino a quella che frequenta ancora oggi gli stabilimenti triestini. Lui ha anche mimato la posizione con le braccia, abbiamo riso di gusto insieme.

Aveva vissuto a Trieste tra il 1946 e il 1953, negli anni del protettorato americano, quando la città si risollevava dalla guerra tuffandosi in un’avventura esotica fatta di blue jeans, jazz e mercato nero di altre novità yankee. Lui era appena uscito dai quattro anni di prigionia in Egitto come soldato italiano e aveva messo in piedi insieme a un amico una piccola maglieria dove, immagino anche grazie ai suoi meriti sportivi, confezionava le tute della nazionale. Non era certo uno stilista. «Ma neanche dopo, sa? I disegni, le forme, i modei… ga sempre fato mia moglie, che ga el merito de averme fato vinir voja de lavorar. Mi fazevo i acostamenti dei colori, fazevo i zigzag».

Aveva il vezzo di non prendersi troppo sul serio, ma forse, più che un vezzo, era una lezione di vita. Dire di non essere uno stilista era il modo migliore per mostrare il suo stile. «Mi de la moda non so niente» ripeteva. Riguardo a quella che immagino sia l’invenzione che ha reso celebre la sua maison, unire nello stesso capo tessuti e colori diversi, diceva: «Lori lo ciama put together , mah — e faceva il gesto di scacciare una mosca —, in realtà xe un mismas! E cosa non xe bel el mismas? Varda i pastori, i xe sempre vestidi put together».

L’allegria incrinata

Ma nell’occasione del nostro incontro, al contrario di quello che potrebbe far pensare ciò che sto dicendo, non parlava solo lui, anzi, in prevalenza ascoltava. Era incuriosito, un uomo pieno di curiosità, voleva sapere di me, cosa combinavo, come mi andavano le cose, perché mi ero allontanato da Trieste, se ci tornavo ancora. Mi incalzava come un ragazzo. Se iniziavo una domanda, lui, prima ancora che la finissi, mi diceva: «dime, dime».

L’unico momento in cui l’allegria del suo sguardo si è un po’ incrinata è stato quando gli ho chiesto di Zara. «Ah, Zara no esisti più, la esisti solo qua dentro» e si è toccato la testa. Ho commesso un’indelicatezza, me ne sono accorto troppo tardi, il fatto è che a me la nuova Zara piace molto. Chissà se mi perdonerà?, ho pensato.

Quando siamo usciti dal bar ed è venuto il momento di salutarci, aspettavo che mi tendesse la mano, per un attimo ho anche temuto che si limitasse a un cenno distratto e via, invece, cogliendomi totalmente alla sprovvista, con la spontaneità di un compagno di squadra, mi ha abbracciato.

29 ottobre 2022 (modifica il 29 ottobre 2022 | 23:53)

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, 2022-10-29 21:53:00, Mauro Covacich racconta lo stilista: antiretorico e curioso, sapeva ascoltare. «Mi chiedeva di Trieste: si va ancora a ballare in quel posto? È rimasta quella pasticceria?». «Gli ho chiesto di Zara e ha perso l’allegria: “Non esiste più, esiste solo dentro di me”», Mauro Covacich

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