Compiti a casa, la mamma del video sfogo su Tik Tok smentisce la querela dei docenti e promette denunce per la gogna mediatica

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La mamma palermitana, Emma Guiducci, è balzata sull’occhio del ciclone a metà marzo dopo aver pubblicato un video sulla piattaforma TikTok in cui ha accusato pesantemente la categoria dei docenti, rei di assegnare troppi compiti ai propri figli.

Da questo sfogo è nata una vera e proprio ondata mediatica di commenti, sia a favore che contro, e una critica agguerrita da parte di docenti che si sono sentiti offesi dalla parole della mamma.

La donna sul proprio profilo Tik Tok ha risposto alle tante notizie che circolano su una presunta querela ai suoi danni da parte di un gruppo Facebook, Professione Insegnante.

Emma Guiducci nel video si è scagliata contro i giornalisti che hanno pubblicato la notizia senza verificare le fonti e poi ha affermato che al momento non le è stata notificata nessuna querela. “Andrò in questura e vi denuncio, non potete scrivere notizie come se io fossi un delinquente. Sto provando sulla mia pelle cosa vuol dire valanga mediatica”. Inoltre, la donna ha anche invitato chi la segue a mandare screen delle testate giornalistiche e dei profili con commenti offensivi per poter procedere alla denuncia.

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La querela del gruppo Professione Insegnante

Nel video che ha suscitato polemiche la signora, in mezzo a frasi volgari e insulti coloriti, dice: ”Voglio sapere da questi maestri se è normale che mio figlio si svegli alle 6.30 del mattino e si ritrovi il pomeriggio con tre – quattro compiti da fare, senza poter fare sport, senza poter fare nulla. Non mi interessa che avete 20 alunni. Collaborazione scuola-famiglia? Questa è collaborazione? La categoria fa schifo. Sono pochi quelli che si salvano. Non si può fare un c***o, si deve stare sempre dietro a questi c***o di compiti”.

Queste parole forti, c’era da aspettarselo, hanno suscitato indignazione tra gli insegnanti e no. La Guiducci dopo si è scusata per i toni che ha usato, rivendicando comunque il contenuto delle sue affermazioni: “L’ultima battuta è stata veramente eccessiva. Chiedo scusa alla categoria per avere utilizzato la parola schifo. Il mio è stato un semplice sfogo di una donna stanca che vede il figlio che non ce la fa. Quello che provo io lo provano quotidianamente tante persone. In realtà raramente ho avuto problemi con i compiti e i miei bambini vanno bene a scuola. Ma in quel momento ho avuto una crisi e l’ho condivisa non mi sarei mai aspetta tutto questo vortice mediatico”. 

Ciò non è comunque bastato: il gruppo Facebook ProfessioneInsegnante.it, che riunisce 190mila prof, capitanato da Salvo Amato, lo scorso 26 marzo ha comunicato di aver firmato la querela nei confronti della donna.

“Ho letto di tutto. Persino genitori che le danno ragione e la osannano – ha spiegato Amato, professore in un istituto tecnico di Caltagirone, città metropolitana di Catania, a La Stampa -. L’eco sui social è tale che tutti i principali quotidiani ne hanno dato notizia. Se avvenisse la stessa cosa quando un docente protesta per i propri diritti, sicuramente la categoria sarebbe ascoltata anziché essere ignorata da tutti. Offese all’intera categoria, offese inaccettabili che alcuni nei commenti sui social hanno anche osannato al grido di “sei tutti noi”. Mi chiedo cosa sarebbe successo se questa mamma avesse fatto la stessa cosa ad esempio nei confronti di un carabiniere, poliziotto, funzionario dello Stato”.

“Noi insegnanti non siamo solo dei lavoratori, il nostro lavoro ha una funziona sociale che va tutelata e difesa. Non c’entrano nulla i compiti, di quello si può discutere. Personalmente io nemmeno li assegno. Ma è importante non far passare come “normali” offese a un’intera categoria che svolge un lavoro bellissimo, complicato e importante per i nostri figli e per tutta la società”, ha concluso.  

Il gruppo si è appellato all’art. 342 Codice Penale a proposito della lesione dell’onore di un pubblico ufficiale: “Chiunque offende l’onore o il prestigio di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o di una rappresentanza di esso, o di una pubblica Autorità costituita in collegio, al cospetto del Corpo, della rappresentanza o del collegio, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000. La stessa pena si applica a chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica, o con scritto o disegno, diretti al Corpo, alla rappresentanza o al collegio, a causa delle sue funzioni. La pena è della multa da euro 2.000 a euro 6.000 se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato

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