Apriti moda, un viaggio dentro la creatività

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di Gian Antonio Stella

Un weekend dedicato a botteghe e atelier, alla scoperta delle produzioni artigianali più esclusive e raffinate. «Qui nasce l’eccellenza del made in Italy»

Per infilarvi mocassini o polacchine non ce l’avete ancora un calzascarpe deluxe con dente di facocero da 410 euro? Ahi ahi… Lo sappiamo: c’è chi si chiederà innanzitutto, tra le anime disinteressate al lusso, il senso pratico d’un calzante dotato di un dente di quella specie di maialone simile al cinghiale che vive nelle savane africane. Oggetto caruccio e poco ostentabile nei salotti come status symbol. Eppure anche di questi oggetti, non solo di settori come la logistica, il turismo o la meccanica di precisione, è fatta l’economia italiana. E meno male…

Oltre 43mila imprese, 53 miliardi di fatturato

Qualche dato? Prendiamo l’ultimo «Appello al governo che verrà» pubblicato giorni fa da Sergio Tamborini, presidente di Smi-Sistema moda Italia, la maggiore associazione di Confindustria moda che rappresenta l’intera filiera italiana del tessile-abbigliamento: 43 mila imprese, oltre 53 miliardi di fatturato, 10 di saldo commerciale e circa 400 mila addetti. E parliamo solo del tessile-abbigliamento. Per capirci: uno dei nostri pilastri storici come la chimica, spiega Federchimica, di addetti ne ha 111 mila. Un quarto. Che salgono con la farmaceutica a 178 per un totale, coi «posti di lavoro attivati» nell’indotto, a 274 mila.

L’economia della bellezza

Un formicaio di aziende e aziendine e laboratori lillipuziani di talento e maestria che sono sparsi per l’Italia intera e formano un colosso in grado di battersela col resto del mondo. Basti dire che nel tessile-moda i nostri vantano il 30% delle aziende e il 36% del fatturato totale. Ha ragione Matteo Lunelli, il presidente di Altagamma, nata nel ’92, un momento non facile per l’Italia, quando alza un calice (delle cantine Ferrari è peraltro presidente e Ad) per i trent’anni della fondazione che unisce larghissima parte dei marchi più prestigiosi del made in Italy, dall’amarone al cachemire, dall’acqua minerale agli occhiali, dal prêt-à-porter al caffè e così via: al di là delle innovazioni obbligate e spesso geniali, «il cuore di quella che chiamiamo economia della bellezza — che vale 126 miliardi di euro e circa il 7,4% del Pil italiano — continua a risiedere nella manifattura, nella creatività e nell’empatia. Tutto ciò implica capacità di pensare, progettare e realizzare prodotti e servizi dove le abilità tecniche si fondono con competenze intangibili che sono il risultato di secoli di cultura, artigianalità, storia industriale». A partire, appunto, dalle botteghe di mestiere.

Oggetti esclusivi

Come quella di cui dicevamo, la Francesco Maglia Ombrelli, che sta su uno stradone alla periferia sud di Milano tra una parrucchiera, un compracasa, una tavola fredda e uno spaccio di cartucce da stampanti e come spiega apritimoda.it non c’è manco un’insegna: solo «una discesa di cemento che sembra l’ingresso di un garage» dove c’è «una vecchia tipografia che oggi ospita il segreto di sei generazioni di famiglia, l’unica che tramanda un artigianato speciale e quasi dimenticato. Quello degli ombrellai». E che ombrelli! Mica quelli venduti alle uscite della metro per una manciata di euro. Quelli dei Maglia attuali, Giorgio e il figlio Francesco che si chiama come il nonno quattordicenne che a metà ’800 lasciò la Valganna e le fatiche dei carbonai per imparare il nuovo mestiere poi insegnato ai figli dei figli, non solo sono bellissimi ma costruiti con i legni e i metalli e le stoffe migliori con una lavorazione che richiede «da 70 a 110 passaggi a mano». Al punto che un ombrello con «dente di Facocero su legno di castagno e puntale in corno» viene venduto a «1.050 euro Iva inclusa». Troppo esclusivo? «Se chiedi il prezzo vuol dire che non te lo puoi permettere», rispose un giorno Sofia Loren. Ma certo i clienti, via web, non mancano: «Abbiamo raggiunto persone in posti lontani e senza negozi, come l’Alaska e posti remoti dell’Australia».

Capolavori da bottega

Certo, sono spesso fabbrichette di nicchia. Ma sono luoghi fisici vissuti quotidianamente da persone che hanno conquistato mondi un tempo inarrivabili. E un tempo irraggiungibili anche per chi, affascinato dalle eccellenze artigianali che a volte affondano nei secoli come i telai della Tessitura Bevilacqua di Cannaregio a Venezia (tra i quali un telaio progettato da Leonardo Da Vinci il cui disegno originale è a Londra, collezione dei Windsor) non ha mai avuto la fortuna di poterli visitare. Perché chi lavora in laboratori angusti invasi in ogni canto dai materiali non ha poi il tempo e gli spazi per ricevere manco i più devoti ammiratori o perché questi devoti non hanno idea di dove siano le culle dove crescono certi capolavori da bottega.

Il recupero di antichi mestieri

Esattamente il motivo per cui cinque anni fa, nella scia di iniziative culturali quali l’apertura ai visitatori in giorni speciali di tante case, chiese o giardini storici privati (si pensi alle giornate del Fai), la giornalista Cinzia Sasso lanciò l’idea di «portare per un weekend il pubblico alla scoperta dei luoghi più nascosti e segreti del mondo della moda. Là dove si nascondono la creatività, il genio e il nostro saper fare, la massima espressione del made in Italy». Un progetto inizialmente riservato a Milano e dintorni ma via via allargato a Firenze e altre aree al punto di coinvolgere sabato e domenica prossimi, un po’ tutta l’Italia. Con l’invito a tutti gli amatori, i cultori, i curiosi, a visitare questi spazi di lavoro dove vengono recuperati antichi e nobili mestieri altrimenti destinati all’oblio e schiacciati dall’ondata mercantilista che sforna a raffica borse e cappelli, guanti o alamari «pressappoco» come quelli di una volta. Pressappoco, però.

Le merlettaie di Burano

È lì la differenza. Spesso abissale. Lo spiegò pochi anni fa, prima d’andarsene ultracentenaria, la leggendaria Emma Vidal. Era la più grande (in realtà era piccola piccola un po’ innalzata dall’enorme «cocón» di tante nostre nonne) di tutte le merlettaie di Burano e aveva lavorato anche «sulla culla di Maria Pia di Savoia»: «Un giorno una signora mi portò una tovaglia: “Signora Emma, ho comprato un suo merletto”. “Non è mio”. Ci restò malissimo». Le chiesero in un video quante fossero rimaste a fare le merlettaie. Si guardò intorno: «Noi». Erano in quattro. Sempre meno. Così rare che quando Giulio Andreotti chiese trent’anni fa di regalare a Raissa Gorbaciova (allora la donna più ammirata del mondo) la copia d’uno scialle pregiato esposto al museo, gli risposero di no: ci avevano lavorato 24 donne per sei mesi. Impossibile rifarlo ora in meno di due anni. E a costi esagerati perfino per Palazzo Chigi.

Bello, buono e ben fatto

Ed ecco uno dei grandi meriti del recupero degli antichi mestieri artigianali. Bisogna rispondere alla sfida lanciata anche da Ursula von der Leyen: «L’Europa deve riuscire ad attirare chi ha delle capacità e vuole mettersi in gioco. Per questo propongo che il 2023 diventi l’Anno europeo delle competenze e in particolare della formazione continua». Formazione, formazione, formazione. E allora avanti con le merlettaie, i sarti, le modiste, i calzolai, i cappellai, i tessitori e tutti quelli che possono accrescere il mito del made in Italy centrato su tre B: coltivare il Bello, il Buono e il Ben Fatto. E mettiamo finalmente una pietra sopra sui corsi insensati per onicotecnici specializzati in unghie finte o baristi acrobatici volteggianti nel vuoto.

18 ottobre 2022 (modifica il 18 ottobre 2022 | 22:20)

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, 2022-10-18 20:24:00, Un weekend dedicato a botteghe e atelier, alla scoperta delle produzioni artigianali più esclusive e raffinate. «Qui nasce l’eccellenza del made in Italy», Gian Antonio Stella

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