Angela Finocchiaro: «Lasciai Medicina per il teatro mentre i miei si separavano. Zelig? Angoscia totale»

di Chiara Maffioletti

L’attrice: «Non sopporto che le attrici vengano pagate meno dei colleghi maschi. Però quando ho recitato con Mastroianni e Sordi non riuscivo a dire una parola»

È successo tra il liceo e l’università. «Era come se in quel periodo cercassi qualcosa, senza sapere bene cosa fosse. Avevo capito che ero in una turbolenza, ma non realizzavo come sarebbe finita». Con una planata, piuttosto dolce, su un palcoscenico. La carriera di Angela Finocchiaro è iniziata così e ancora oggi, dopo decine di spettacoli a teatro, film e serie tv; dopo programmi di successo, premi e riconoscimenti, negli occhi azzurrissimi e birichini dell’attrice sembra esserci lo stesso stupore di chi si ritrova in un posto in cui finalmente si riconosce, pur non avendo pianificato di andarci.

Torniamo agli inizi…

«Nel mio peregrinare sono finita nella scuola di mimo di Grock. Non era quello che pensavo di voler fare: stavo solo cercando qualcosa che mi suscitasse dell’interesse. Penso che a farmi fermare sia stato l’aver trovato un gruppo di persone con cui stavo bene… dopo un po’ i miei insegnanti mi hanno chiesto di fare una piccolissima parte e ricordo di aver pensato poco prima di entrare in scena: adesso me ne vado».

Agitata?

«Era più panico. Mi ripetevo: ma chi me lo ha fatto fare. Invece sono rimasta. Non immaginavo di costruire una carriera, andavo avanti passo dopo passo per qualche cosa che mi muoveva intimamente. E contemporaneamente iniziavo la facoltà di Medicina».

Si immaginava medico?

«Ma no, è una scelta che non è durata niente, infatti sono passata subito a Psicologia. Ma, anche lì, ho capito presto che il teatro mi piaceva di più. Ero entrata a far parte del Teatro del Sole: si facevano spettacoli nelle scuole tutti i giorni e tutti facevano tutto, compreso montare le luci o guidare il pulmino. Ci ho lavorato quattro anni ed è stata una grande formazione. Ma non ero ancora nell’ottica di dire: è il mio lavoro. Lo è diventato semplicemente perché lo facevo sempre, organizzando laboratori, training, facendo improvvisazione. Era verso la fine degli anni Settanta e a Milano c’era un movimento importantissimo che favoriva la nascita di gruppi di questo genere. Avevi la sensazione di poter comunicare quello che volevi».

Quindi, in quegli anni, ha finalmente trovato la sua dimensione?

«In realtà no: uscita dal Teatro del Sole con altri due attori abbiamo fondato un nostro gruppo, da cui pure poi me ne sono andata. Mi sentivo sempre un cane sciolto e alla fine i gruppi mi stavano stretti, pur essendo le mie radici. Avevo bisogno del mio spazio di libertà: costruivo io i progetti in cui volevo lavorare senza dover aspettare una telefonata».

I suoi genitori come avevano vissuto la scelta di lasciare Medicina per il palcoscenico?

«Intorno ai miei 18 anni loro si stavano separando e io ho approfittato di quella situazione per entrare in un varco altrimenti difficilissimo. C’era il luogo comune che fosse un salto nel buio lavorare nello spettacolo, senza contare che bisognava laurearsi… ma entrare anche timidamente nel teatro mi ha dato la possibilità di prendere un’accelerazione che da sola non avrei avuto. Così sono riuscita a tirarmi fuori dal bozzolo e a liberarmi anche da una certa educazione che arrivava da mia mamma, fortemente legata alla fatica, al rispetto del suo uomo…».

Si considera una femminista?

«Sono una donna e in quanto tale mi sembrerebbe stranissimo non pensare di esserlo. Se sei una donna come minimo sei femminista».

Invece non sono poche le donne che cedono a retaggi maschilisti, non crede?

«Sì, vero. Forse ho incontrato nel mio percorso persone piuttosto illuminate in questo senso, ma siamo ancora al palo con la storia del salario: io sicuramente sono pagata meno dei maschi con cui condivido lo stesso ruolo. Succede soprattutto succede nel cinema».

Dove anche i ruoli per le donne sono molto meno e, di base, più stereotipati.

«Sì, anche quel lato è molto faticoso».

Non ha voglia di scrivere lei qualcosa?

«No. Mi piace collaborare. Con Nichetti abbiamo scritto un soggetto, una sceneggiatura, vediamo cosa si riesce a fare».

Maurizio Nichetti è un suo grande amico?

«Da sempre. Lui è una figura importantissima: era uno degli insegnanti della scuola di Grock ed è stato il primo a farmi capire che avevo dei tempi comici. Me lo ha proprio detto lui, portandomi poi nel suo primo film, Ratataplan, che fu un successo stellare. Siamo rimasti molto legati. Poi abbiamo fatto insieme la serie Mammamia! dove i miei figli erano proprio i miei figli…».

Davvero?

«Sì, non lo volevo fare e loro erano piccoli: avevano 3 e 5 anni. Ma Maurizio, che li conosceva da sempre, è stato così coinvolgente che loro si sono divertiti da morire: ne sono felicissima».

Cosa fanno oggi i suoi figli? Loro non lavorano nello spettacolo?

Occhiata di divertita disperazione. «Una ha scelto scenografia e l’altro regia, ma non ho fatto niente per indirizzarli… penso che oggi sia un ambiente ancora più difficile ma allo stesso tempo mi sembra di essere come i miei genitori: non sei nato nella complessità di adesso e ti annichilisce. Quindi sto zitta: sono appassionati, facciano la loro strada con fiducia e io mi tengo la mia gocciolina di sudore e non la mostro»

Ha lasciato Milano per vivere in campagna.

«Sì, è successo una trentina di anni fa. Adesso si sono trasferiti a Milano i miei figli, città che adorano come me: quando me ne sono andata, negli anni Novanta, mi pareva un po’ flessa e io mi ero rintanata. Ora è di nuovo bella bella. Allora avevo voglia di cambiare, così ho preso la palla al balzo di fidanzarmi con un toscano e mi sono spostata lì. Ma tutti i miei medici li ho tenuti e Milano e quando devo andarci prendo il treno».

E, nel mentre, anche il toscano è rimasto…

«All’inizio lavoravamo assieme, lui curava gli allestimenti degli spettacoli. Finché i bimbi non andavano a scuola li abbiamo sempre portati con noi: volevo sapessero devo erano la mamma e il papà quando non erano con loro. Non parliamo esageratamente del lavoro, in famiglia, e non so dire che genitori siamo stati, anche se di recente abbiamo avuto una soffiata: un’amico ci ha detto che nostro figlio si è detto felicissimo della sua mamma e del suo papà… che da allora sta ancora piangendo».

Come ricorda gli anni a «Zelig»?

«Per me è stata un’angoscia totale. Mi sono divertita nell’attimo in cui riuscivo a farlo, ma ci sono delle regole micidiali — ride —. Cioè, ogni un-due-tre deve esserci il boato della risata. Io non ho quell’indole, quindi questa cosa mi metteva sempre un’ansia bestiale. In teatro arrivi alla risata con tempi diversi e, soprattutto, non sai mai se davvero qualcosa farà ridere: mi piace scoprirlo con il pubblico. Invece lì ci sono Gino e Michele, che sono miei amici del cuore e che mi hanno dato quell’opportunità, ma che sono anche di una perfidia… sono delle macchine da guerra. Diciamo che ci ho provato a fare il cabaret ma non sono sopravvissuta. Credo che anche loro avranno pensato: poverina, la facciamo venire ma non è proprio il suo…».

È stata una delle colonne della «Tv delle ragazze». Dramma anche lì?

«Ecco, lì era diverso, ti costruivi gli sketch… ci doveva essere una chiusa comica ma non era come essere in una sorta di colosseo, inteso come anfiteatro, in cui devi andare e se poi non viene giù è un problema».

Prima che arrivasse lo spettacolo sapeva di essere simpatica?

«Non particolarmente. Ero timidissima, alle feste facevo tappezzeria. Avevo i capelli che sembrava avessero preso la scossa, magra magra, il naso lungo. Questo lavoro è stata una terapia».

Per la timidezza?

«Anche. Poi mi sono legata moltissimo a tante persone con cui sono cresciuta, tra cui Silvio Orlando, Claudio Bisio, Diego Abatantuono o Christian De Sica, con cui sto girando un film».

Un sacco di amici, altro che fare da tappezzeria alle feste…

«Beh, ho lavorato anche con Alberto Sordi e Marcello Mastroianni ma ero totalmente implosa al loro cospetto. Ero giovane: non avevo paura del lavoro, piuttosto dei momenti fuori scena, in cui dovevo chiacchierare a tu per tu con loro. Erano entrambi di una gentilezza… una volta la troupe aveva festeggiato il mio compleanno e Mastroianni si era unito a farmi gli auguri. Bene, io potevo morire, evaporavo, scomparivo, non gustavo per niente il momento… che carattere orrendo ho. Lui in questa serie che giravamo, A che punto è la notte, entrava e usciva dal suo personaggio con una semplicità e una facilita che ti chiedevi: ma da dove arriva?».

E con Sordi? Andò meglio?

«Macché. Avevamo girato un film ed eravamo andati anche a Los Angeles assieme. Lui, gentilissimo, mi aveva perfino portata fuori ma non sono fiera per niente di come ho gestito quell’invito: non parlavo. Avrà pensato: ma che palla».

Potrebbe essere un lato da sfruttare: vorrebbe mettersi alla prova in più ruoli drammatici?

«A teatro no, non ho molta voglia di andare a scorticarmi nell’anima tutte le sere, per mesi. Non ce la faccio. Al cinema invece penso sia bello trovare registi che allarghino la tua coscienza, che ti mettano in difficoltà facendoti fare cose diverse. La bestia nel cuore per me è stato un passaggio, Cristina Comencini mi ha tolto anche delle paure con quel film, dandomi una scossetta. Poi non sempre è possibile, nel senso che non sempre hai modo di uscire dalla tua confort zone. Ogni tanto mi pongo la domanda: ma faccio sempre gli stessi ruoli?».

E la risposta?

«Non so, ma so che a volte me lo chiedo. Detto questo, la libertà di scelta è una cosa meravigliosa ma ci sono dei momenti della vita in cui non l’ho potuta esercitare. La mia fortuna però è una: ogni volta, anche con i progetti più piccoli, finisco per innamorarmi di quello che faccio».

20 giugno 2022 (modifica il 20 giugno 2022 | 08:05)

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, 2022-06-21 12:35:00, L’attrice: «Non sopporto che le attrici vengano pagate meno dei colleghi maschi. Però quando ho recitato con Mastroianni e Sordi non riuscivo a dire una parola», Chiara Maffioletti

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