A Cracovia tra i volontari da tutta Europa: «Qui per l’Ucraina, questa volta è diverso»

di Francesco Chiamulera

Da Amsterdam a Madrid, al centro di accoglienza polacco è un flusso continuo. L’Ong: «Abbiamo un bisogno quotidiano di braccia». Nella città solo bandiere giallo e blu e le scritte: «Stop Putin Now»

Ci sono loro, che arrivano da un lungo viaggio in mezzo a un paese invaso. Irina, Anna, Lyushyna, e poi Katia di Kiev, con la figlia, che ha la macchina targata Ucraina tutta impolverata, il marito chissà dove a combattere. Una lunga fila nella strada, cento metri in coda.
Donne, bambini, anziani. Nessun maschio sopra i diciotto e sotto, diciamo, la sessantina. Tutti con in mano il passaporto blu, in attesa di accreditarsi presso il centro Wielokulturowe di Cracovia, al 16 di via Ignacego Daszyńskiego. Ci sono i ragazzi che aiutano, Konrad e Sylvia che sono di qui, Tomaš, polacco della campagna, Sebastian di un paese vicino al confine, ma anche Mathieu di Besançon, Nick del Missouri, Mikhail con passaporto britannico; e poi Wilhelm e Raquel, lui olandese, lei brasiliana, che hanno guidato sedici ore da Rotterdam, con l’auto piena di cose. E Jaap e Tom, di Amsterdam, con la spilla di Amnesty e un furgone riempito di ogni genere di aiuti. «L’Europa ha mille problemi, ma stavolta sento che è tutto diverso,
non potete immaginare quante bandiere gialle e blu abbiamo visto lungo la strada,
q
uanti conoscenti che si sono mobilitati».

Il Wielokulturowe è un’organizzazione che opera in più luoghi cittadini, il più grande dei quali è il Plaza. Anna, di Cracovia, è la coordinatrice della Ong: «Abbiamo un bisogno quotidiano di braccia. Gli aiuti sono tantissimi. Le persone che ne hanno bisogno sono di più». E poi in questo grosso magazzino al piano terra di un edificio della Cracovia socialista, poco fuori dal centro storico così elegante e malinconico nel suo Ottocento intatto, nei suoi viali alberati e musicali. Dalla mattina presto all’ora di cena, i volontari del Wielokulturowe elargiscono, come un piccolo supermercato, aiuti ovviamente gratuiti ai rifugiati ucraini che si mettono pazientemente in coda all’esterno, e che entrano, lasciano il proprio nome, mostrano il documento, e possono prendere «quello che serve loro» tra i vari articoli. È tutto molto organizzato. Otto ore al giorno, in due turni, a spostare e stoccare pacchi e scatoloni, a disporre i prodotti sugli scaffali, una sequenza che sembra infinita di lattine e barattoli di cibo dall’aria equivoca, goulasch e cetrioli e zuppe di funghi liofilizzate, e poi pannolini e dentifrici, banane e omogeneizzati, spazzolini e bagnoschiuma, e anche giocattoli. I bambini li scelgono dagli scaffali come fossero in un negozio. Arriva di tutto, da tutte le parti: Spagna, Italia, Germania, Polonia. Katia e la figlia mettono in auto le cose che hanno ritirato e sistemato negli scatoloni. Pappa per cani, carta igienica, assorbenti femminili. Acqua in bottiglia. «Please explain the refugees that here they can drink from the tap, differently from Ukraine». Il portabagagli si chiude. Spasibo.

Serhii ha trentaquattro anni, è ucraino di Odessa. Cosa ci fa qui? Si cerca di capirlo con discrezione, tenendo conto di quanto delicata sia una domanda del genere, al pensiero di quanti di noi, nei suoi panni, avrebbero fatto probabilmente la stessa cosa: siccome si trovava già in Europa «per un viaggio» il 24 febbraio, quando la Russia ha invaso il suo Paese, Serhii è rimasto qui in Polonia. La legge marziale, la coscrizione obbligatoria per i maschi sotto i sessanta sono arrivate dopo.
Ora serve al banco dei prodotti alimentari. Sua madre è a Odessa, «dove è ancora abbastanza tranquillo», dice. Lo zio invece, cresciuto nell’Ucraina occidentale, vive con i cugini da trent’anni in Russia, a Kostromo, città storica dell’Anello d’oro intorno a Mosca. Una volta i due pezzi di famiglia si vedevano e frequentavano. Dal 2014, cioè quando Putin si è mangiato la Crimea, i parenti russi si sono chiusi a riccio. Hanno iniziato a dire che nell’Ucraina occidentale è pieno di «fascisti». Ma come, dice Serhii, nell’Ucraina occidentale lo zio ci ha vissuto per la prima metà della sua vita, dove li ha visti, questi fascisti? Parla a voce bassa. Poi ricomincia a servire pane, farina, riso e barattoli di carne in scatola ai connazionali ucraini.

A intervalli irregolari, il magazzino viene investito da ondate di nuovi aiuti. Un volontario si affaccia alla porta: puoi venire?, c’è una nuova vettura. È un flusso continuo. Simon e Agatha, entrambi di Cracovia, portano giochi per bambini, teddy bear, barrette Kinder, salviette igienizzanti per i neonati, succhi di frutta. Sono della loro azienda olandese, che ha sede anche in Polonia. Non si fa a tempo ad appoggiare i giochi a terra che un bambino si mette a pesare accuratamente un pallone da calcio, e se lo porta via. Alle tredici si affacciano Jorge, Julian e Jörgen. I primi due spagnoli, il terzo tedesco che vive in Spagna da molti anni. Partiti in macchina da Madrid domenica mattina, sono arrivati ora, martedì, dopo quarantotto ore, con un grande van. È un’alluvione di scatoloni, con dentro di tutto, integratori alimentari per bebè, aspirine, cosmetici, sacchi a pelo, e fuori la bandiera spagnola. È estremamente confortante, in questi giorni bui, vedere come si dispieghi la solidarietà europea. La città è tappezzata di bandiere ucraine gialle e blu. Non c’è praticamente altro. Arcobaleni non se ne vedono.
Tutti sembrano dare per scontato che, in queste condizioni, oggi, qui, dire «pace» equivale a dire «Putin». Concerti per l’Ucraina, stendardi giganti che pendono dai balconi, l’insegna luminosa dello storico teatro Bagatela (si chiama davvero così), dove ha debuttato Roman Polanski, che reca a caratteri cubitali: «Stop Putin Now».

Chissà se l’Ucraina del 2022 sta alla Russia come la Polonia del 1939 stava alla Germania. Certo è la sensazione che si respira a pieni polmoni in città. La solidarietà di una nazione aggredita verso un’altra nazione aggredita. Prima di parlare di comune sentire democratico, che pure esiste, certo, è questo sentimento ad essere preponderante — un sentimento così peculiarmente polacco, quello di una vasta pianura tra nazioni bellicose e potenti, la paura di rischiare puntualmente di perdere tutto, la propria stessa esistenza, di scomparire dalla mappa, di dover difendere un tratto così sproporzionatamente lungo dei propri confini da vicini così ostili. Lo ha detto un tassista al quale chiediamo se si senta in pericolo. No, abbiamo un esercito forte, risponde. Ok, ma l’ombrello della Nato non vi tranquillizza di più? Cosa volete, dice, la storia insegna che tutte le volte che la Polonia si è trovata in difficoltà ha potuto contare solo su sé stessa. Una visione estrema, imprecisa, ma come dargli davvero torto. È vero che fu proprio l’attacco di Hitler a Varsavia a provocare nel ‘39 lo scoppio della seconda guerra mondiale, che Inghilterra e Francia scesero in guerra proprio perché alleate; ma è vero altrettanto, e forse di più, che per i successivi sei anni i polacchi restarono soli, soli per davvero, sei lunghi e tragici anni, e che dopo sofferenze inenarrabili i «liberatori», nel ’45, furono i sovietici. Cioè ancora una volta i russi.

Si respira in Polonia un’aria carbonara, pragmatica, da resistenza, da solidarietà democratica, che dall’Italia si fatica a capire. È quasi allegra, e non è per suonare irrispettosi rispetto alla tragedia in corso, ma è così in questa città che sta nelle retrovie della odierna battaglia contro il dittatore. Ricorda certe pagine di Omaggio alla Catalogna di Orwell, quando descriveva, da militante del minuscolo partito di sinistra antistaliniana, il Poum, come la città di Barcellona trovava una sua joie de vivre a poche decine di chilometri dal fronte in cui repubblicani e franchisti si ammazzavano nel nome di due visioni opposte dell’Europa. Nei talk-show italiani c’è chi invita con apparente equidistanza a considerare le ragioni storiche dell’orgoglio russo e così via, sembrano lontani anni luce da questa fraternità immediata, giovanile, non retorica e quasi nemmeno detta ma praticata, spesso motivata da vincoli familiari, di prossimità geografica, di storie di recente immigrazione, di famiglie dislocate. O semplicemente dal comune sentire tra vicini di casa di un impero che ha spesso espresso le ragioni del suo spazio vitale con i carri armati.

Ci sono due Cracovie. Il crinale tra le due è, in questi giorni, la stazione ferroviaria. Vi si accede attraverso un maxi centro commerciale tutto vetrate, la Galeria Krakowska, costruita nell’ultimo ventennio intorno alla vecchia, piccola stazione asburgica. Un mall a più piani con negozi di scarpe, caffetterie, Kfc, Starbucks. Se non fosse che è così piena di gente, all’inizio si potrebbe quasi credere che non ci sia nulla di nuovo, nulla di strano, che i centocinquantamila rifugiati ucraini si siano mimetizzati molto bene nella normalità urbana. Poi, man mano che ci si avvicina ai binari, tutto cambia. I gruppi di famiglie — sempre lo stesso schema, con poche variazioni: donna, spesso biondissima, sui trenta-quaranta, con due o più ragazzi, ed eventualmente parente anziano al seguito, spesso un animale domestico nel trasportino, nessun maschio adulto non anziano — che camminano con aria estenuata e sperduta nei vasti corridoi si moltiplicano. Si comincia a notare gente seduta a ogni angolo, a scrivere sugli smartphone, con accanto bagagli e zaini da gita e, spesso, sacchi a pelo.

In certi momenti manca il respiro, tanta è la calca, il rumore e l’aria calda e pesante. Intorno al binario 3, che è quello dove arrivano i treni dal confine ucraino, ci sono ovunque punti informazioni con scritte in caratteri latini e cirillici. Code di decine di metri. Volontari polacchi, tanti, di ogni età, che corrono, riempiono moduli, distribuiscono bottigliette d’acqua. Nelle sale d’aspetto, centinaia di letti da campo dove riposano le famiglie di rifugiati. La Croce Rossa, l’Ordine di Malta, l’infermeria. E fuori, vicino ai binari, nel piazzale della stazione vecchia, nascosto da questo gigantesco centro commerciale surrealmente riempito di scampati che arrivano da una guerra, le tende da cui partono le richieste di aiuto: servono prodotti per l’igiene, shampoo, cibo, acqua, vestiti. A poche centinaia di metri, Cracovia ostenta una normalità allegra e niente affatto congestionata. I caffè sono frequentati dai normali avventori, coppie, vecchie signore, amici e studenti del liceo che ripassano per l’interrogazione e che consultano Instagram — sempre però si coglie un riferimento all’Ucraina nei discorsi rubati al tavolo accanto.

E allora, solo allora, ci si accorge, pensando alle ore passate tra i volontari al Wielokulturowe e poi del tornare a essere banalmente flâneur, osservatori esotici che stanno per rientrare in hotel, della impossibilità assoluta di indossare davvero i panni altrui. Una impossibilità tragica tanto più che non è voluta né cercata, ma in qualche modo inevitabile. È la storia contenuta nell’ultimo film di Emmanuel Carrère, Tra due mondi, in cui Juliette Binoche interpreta una giornalista borghese, Florence Aubenas, che si finge povera e alla ricerca di impiego per capire come vive il popolo francese, per immergersi nelle sue fatiche, con l’intento di effettuare un’inchiesta sulle nuove povertà. Come dice una donna a Florence, non potrai mai capirlo davvero, anche se farai i lavori più umili, anche se ti distruggerai e sporcherai le mani e tornerai a casa con i piedi gonfi e doloranti. «Perché tu puoi smettere quando vuoi. Loro no».

18 marzo 2022 (modifica il 18 marzo 2022 | 18:31)

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, 2022-03-18 22:09:00, Da Amsterdam a Madrid, al centro di accoglienza polacco è un flusso continuo. L’Ong: «Abbiamo un bisogno quotidiano di braccia». Nella città solo bandiere giallo e blu e le scritte: «Stop Putin Now», Francesco Chiamulera

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